Se dopo tredici anni di ferreo potere Hugo Chavez rischia di perdere le elezioni (ma non le perderà: il Venezuela non è una vera democrazia, non fosse per la presenza di una milizia fedele al presidente «bolivariano» ma soprattutto filocastrista forte di più di centomila uomini) è perché il suo avversario conservatore, che non è uno sprovveduto, ha scelto di calarsi al suo livello di populismo. Henrique Capriles Radonsky, quarantenne avvocato discendente di ebrei russo-polacchi, non manca di mostrarsi ai comizi con un rosario al collo, assicura di ispirarsi all'ex presidente brasiliano di sinistra Lula e di voler mantenere i programmi sociali che tanto popolare hanno reso il suo avversario. Addirittura, nel tentativo di togliere a Chavez il monopolio di un'etichetta molto in voga in Sud America, è arrivato a definirsi anti-imperialista.
La misiòn imposible di cui Capriles parla con toni messianici nei suoi comizi è per lo meno ardua, ma non appare più tanto impossibile. I sondaggi lo danno in recupero ma perdente, per quel che ci si può fidare dei sondaggi in un Paese come il Venezuela, dove Chavez soffia sempre in toni minacciosi sulla brace rovente dell'invidia sociale e fa capire ai ceti medio-alti che è loro interesse votare per lui se vogliono conservare almeno parte dei loro privilegi ed evitare l'inevitabile collera popolare. Non tutti insomma credono ai numeri che circolano, che alla vigilia del voto di ieri davano Chavez in vantaggio di una decina di punti (49 a 39) con quasi il 12 per cento di indecisi. Un ottimo conoscitore della politica sudamericana, il premio Nobel peruviano Mario Vargas Llosa, si dice convinto che in realtà Capriles sia in vantaggio nelle intenzioni di voto «dai due a i quattro punti», ma altrettanto certo che con un vantaggio così modesto i risultati saranno truccati a favore di Chavez.
Il caudillo rosso, intanto, manda segnali che possono anche indicare debolezza. Ai comizi si sforza di mostrarsi energico ma ammette (insolitamente) di «non essere immortale». Il giorno prima del voto ha invitato a «rispettare il risultato qualunque esso sia». Ieri il suo ministro della difesa ha minacciato non meglio precisati «gruppi» ricordando che « ci sono forze armate preparate, ben attrezzate e addestrate per stroncare ogni tentativo di disturbo»: ma è difficile che si riferisse ai sostenitori di Chavez. L'opposizione, da sempre divisa, ma che con Capriles ha trovato un leader unificante efficace e coraggioso, è insomma avvisata in perfetto stile latinoamericano: giù la testa.
Eppure Chavez, che sa di essere coperto sotto il profilo poliziesco-militare, non è tranquillo. Ha ragioni interne ed internazionali per preoccuparsi. In patria il malcontento per la sua gestione del potere di stampo cubano sta crescendo e sempre più numerosi sono i venezuelani che vedono con ansia il consolidarsi di un regime il cui leader quasi assoluto può contare sul controllo del Parlamento, sul sostegno della Banca Centrale, sull'aiuto non disinteressato di giudici ideologicamente allineati e tende a usare l'abbondante disponibilità di petrolio come strumento per ottenere sostegno internazionale presso personaggi poco raccomandabili. Inoltre, il fatto che ieri l'affluenza alle urne sia stata massiccia non è necessariamente un buon segnale per lui.
All'estero, contemporaneamente, la sua stella si sta offuscando. Il «bolivarismo» ha tratti troppo autoritari, per tacere della disinvoltura con cui il presidente sceglie i suoi alleati tra le peggiori canaglie dello scenario mondiale, dall'iraniano Ahmadinejad al nordcoreano Kim, dal siriano Assad al bielorusso Lukashenko: tutta gente abituata a trattare l'opposizione come scarafaggi da schiacciare.
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