C'è l'arte «pro» regime e l'ante «contro» regime. Non è detto che quella destinata a regale denaro, successo e popolarità sia necessariamente la prima. Anzi. Basta analizzare ciò che, nella storia, è accaduto all'interno delle correnti pittoriche più o meno «organiche» agli apparati di potere. Parliamo ovviamente del passato, quando il mondo era sconvolto da guerre, ideologie, passioni; non certo di oggi, epoca di narcotizzazione globalizzata. L'arte è il riflesso speculare di queste opposte realtà: da una parte il primo cinquantennio del secolo breve, con l'arte figlia del sangue e delle bombe; dall'altra l'ultimo ventennio, con l'arte ridotta a fenomeno di laboratorio tra deliri mediatici e aspirazioni d'investimento.
Due esempi - tra loro agli antipodi - ci aiutano a capire. Oggi, un Nanni Moretti che entrasse nel Bar dell'Arte Contemporanea griderebbe: «Ve lo meritate Ai Weiwei...». Il «supercensurato» artista cinese per molti è decisamente sopravvalutato: pochi si ricordano sue opere, ma il suo arresto ha fatto il giro del mondo e ha rappresentato la vera chiave del suo boom mondiale. I suoi 15 milioni di semi di girasole che «impreziosiscono» una sala della Tate Modern di Londra non sarebbero mai stati celebrati dalla critica se sulle mani di Weiwei non brillassero le stigmate del censurato dall'Impero del Sol Levante. Un'esistenza da star, quella di Weiwei, in cella per un breve periodo, ma vissuto tra gli agi di chi si muove al ritmo del Gangnam style. Ben diversa la sorte di Vassily Kandinsky, il prototipo dell'artista «degenerato» costretto a espatriare dalla madre Russia (e questa fu la sua fortuna) perché il nascente astrattismo mal si conciliava con l'epica figurativa della ritrattistica nazionalsocialista.
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