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Ecco perché non possiamo più stare a guardare

Ci sono momenti in cui non agire equivale a morire. L'Italia ne è ad un passo. Se il momento arriverà non potremo esimerci dall'assumere l'iniziativa e chiedere agli alleati un complesso, ma indispensabile intervento armato per correggere i disastri causati dall'operazione Nato conclusasi con la morte di Gheddafi. La Libia, una ex-colonia affacciata sul Mediterraneo e lontana solo 400 chilometri, meno della distanza tra Roma e Milano, è ormai una terra senza legge. Il rapimento per mano di una milizia islamista del premier Ali Zeidan, un politico d'ispirazione liberale, segnala un progressivo e inarrestabile disfacimento che minaccia di trasformare la Libia in una nuova Somalia. Per l'Italia quell'eventualità rappresenta un rischio mortale. Un rischio insostenibile per tre cruciali motivi legati al fabbisogno energetico, alle esigenza di garantire la sicurezza nazionale e all'impossibilità di accogliere nuove ondate di disperati senza alimentare il malessere sociale già causato dalla crisi economica.
Prima della caduta di Gheddafi importavamo dall'ex colonia circa 280mila barili di petrolio al giorno, pari al 23 per cento del fabbisogno. Dopo la morte del raìs, l'Eni riuscì a garantirsi forniture per circa 270mila barili al giorno riducendo al 16/17 per cento, grazie a nuovi fornitori, la quota di dipendenza dalla Libia. A luglio le milizie pagate, in teoria, da Tripoli per difendere le installazioni hanno rotto gli accordi e occupato i terminali petroliferi. Da allora l'Eni riceve meno di 60mila barili di petrolio al giorno. Già oggi quindi le forniture di greggio libico, nostro insostituibile interesse nazionale, sono ridotte a meno di un quarto del minimo necessario. Più cruciale dell'oro nero è però il gas. Un taglio alle porte dell'inverno lascerebbe l'Italia al gelo rendendo estremamente più onerosa la produzione industriale e trascinando al tracollo la già dissestata economia.
Il capitolo sicurezza, come dimostra la cattura a Tripoli di Anas Al Libi, l'ex sodale di Bin Laden mente delle stragi alle ambasciate Usa in Africa, non è meno allarmante. Le milizie jihadiste responsabili del rapimento del premier, oltre a minacciare i pozzi, controllare intere regioni della Cirenaica e del sud del paese dispongono d'ingenti quantitativi di armi convenzionali, di migliaia di missili anti aerei e di ordigni chimici razziati negli arsenali del Colonnello. I 400 chilometri tra Tripoli e le nostre coste sono una distanza troppo esigua per garantirci che quelle armi non vengano usate contro i nostri aerei o non finiscano nelle mani di cellule terroriste trasferitesi sui nostri territori.
Il terzo pericolo altrettanto esiziale per l'Italia arriva da banchine e porti controllati dalle milizie e subafittati, come ha dimostrato il naufragio a Lampedusa del barcone salpato da Misurata, ai mercanti d'uomini. Da Misurata e dagli altri porti prenderanno il mare, in caso di definitivo collasso e conseguente «somalizzazione» del paese, decine di migliaia di disperati. Ma non solo. Dagli stessi porti grazie alle grandi quantità di armi a disperati pronti a tutto potrebbero salpare, seguendo uno schema già sperimentato in Somalia, i nuovi filibustieri pronti a riportare la pirateria nel Mediterraneo.
Per far fronte a tutto ciò la semplice iniziativa politica non sarà più sufficiente. Un collasso della Libia richiede la messa a punto, d'intesa con gli alleati, di un intervento armato che consenta di fronteggiare la minaccia al qaidista e al tempo stesso assumere il controllo di pozzi petroliferi, gasdotti e città portuali.

Ovvero di difendere sul posto i nostri naturali e irrinunciabili interessi nazionali e strategici.

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