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Egitto, pena di morte per 182 Fratelli musulmani

Il leader Mohamed Badie e i militanti condannati per i disordini di agosto 2013

Egitto, pena di morte per 182 Fratelli musulmani

Centottantatrè condanne a morte, compresa quella della guida spirituale dei Fratelli Musulmani, Mohamed Badie, sembrano pensate apposta per scatenare un'altra estate calda, al Cairo e dintorni. Fuoco e fiamme promettono gli islamisti radicali della Fratellanza che si riconoscono nel deposto presidente Morsi contro il governo del presidente Abdul Fatah al Sisi, l'ex generale che ha giurato guerra aperta agli inturbantati che predicano la sharia anche per il più occidentalizzato dei Paesi islamici moderati.

Quanto alla sentenza, poteva anche andar peggio, visto che al processo d'appello, conclusosi ieri, gli imputati condannati a morte al processo di primo grado erano oltre 500. Anche stavolta, par di capire, il verdetto dovrà passare per la ratifica (non vincolante) del Gran Muftì, il più alto rappresentante della legge islamica sunnita. Ma non c'è muftì, oggi in Egitto, che abbia l'aria di volersi giocare il posto scontentando il governo orchestrato dal presidente al Sisi.

Fulcro del processo erano i sanguinosi disordini che un anno fa, a Minya, nel sud, portarono all'uccisione del vice comandante di una stazione di polizia dopo lo sgombero del sit-in di Rabaa el Adaweya del Cairo. Era lo scorso agosto. Un'estate di sangue, costata centinaia di morti, seguita alla deposizione di Mohamed Morsi, il presidente espressione dei radicali islamici. Un'estate, quella in arrivo, che rischia di far dimenticare quella passata, ora che la sentenza d'appello ha ribadito la condanna a morte della guida spirituale del movimento, Mohamed Badie.

Sono giorni cruciali per il precario assetto di una nazione che ai militari, e a una magistratura da sempre influenzata dai governi in carica, ha affidato il compito di respingere l'avanzata dei radicali. A Washington, gli analisti sono divisi. La svolta tutta «legge e ordine» imposta all'Egitto dall'ex generale al Sisi naturalmente piace.

Ma è difficile, per l'amministrazione Obama, ignorare le preoccupazione espresse da molte organizzazioni per i diritti umani. «Le condanne a morte confermate da un tribunale egiziano vanno annullate», chiede per esempio Hassiba Hadj Sahraui, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa. Che aggiunge: «L'Egitto ha fatto un enorme passo indietro in tema di diritti umani», definendo l'uso della pena capitale come un mezzo spicciativo «per eliminare gli avversari politici».

Critiche e preoccupazioni non sembrano impensierire i giudici egiziani o condizionarne l'operato. Ieri, per esempio, il Tribunale penale del Cairo ha condannato a sette anni di carcere 14 studenti affiliati al movimento dei Fratelli musulmani per i danneggiamenti provocati alle strutture dell'università Al-Azhar durante le proteste seguite al rovesciamento dell'ex presidente Mohamed Morsi, il 3 luglio scorso. Perché la politica, e le proteste di piazza dell'opposizione, sia pur vigorose, non sono in discussione, sembrano dire con la loro sentenza i giudici del Cairo. Ma che c'entrano con le proteste gli edifici dell'università incendiati e le attrezzature di molti laboratori distrutte?

Di fronte alla minaccia di nuove insurrezioni di piazza, il presidente al Sisi ha fatto appello all'unità e alla coesione di tutti i cittadini «per ricostruire lo Stato». «Siamo circondati da pericoli, ma siamo in grado di affrontarli», gli ha fatto eco il ministro dell'Interno, Mohamed Ibrahim.

Come dire: se è il sangue che vogliono, lo avranno.

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