I «have a dream» ha 50 anni ma bisogna ancora pagarlo

I «have a dream» ha 50 anni ma bisogna ancora pagarlo

Sì può marciare su Washington, alzare il pugno, gridare «I have a dream», scriverlo con lo spray su un muro, ricordare l'eredità di Martin Luther King, danzare in suo onore e gioire perché alla Casa Bianca c'è, per la prima volta nella storia, un nero. E gli attivisti che in questi giorni sono affluiti a Washington per commemorare i 50 anni dalla storica marcia per i diritti civili del 1963, stanno facendo tutto questo e anche di più.
Ma nel mondo dei progressisti americani qualcuno fa notare che, incredibilmente, si può fare tutto tranne riguardare e riascoltare una registrazione integrale del discorso integrale che il pastore battista tenne in quella storica giornata. Provate a cercarlo on line: non è affatto facile. Succede perché la diffusione delle immagini si scontra con una ferrea determinazione degli eredi del leader nero a difenderne in tribunale la proprietà intellettuale. Più di «I have a dream» oggi conta «I have a copyright», come ha scritto polemicamente «Mother Jones», il magazine progressista intitolato a un'altra storica leader delle battaglie per i diritti civili. E anche un'altra voce impegnata,quella di The Atlantic, ha raccolto la polemica, raccontando la storia di Evan Greer, un attivista che per protesta ha pubblicato on line su Vimeo, una piattaforma di video simile a Youtube (dove stranamente invece un video è rimasto on line e ha raccolto 80.000 clic), proprio in occasione dei cinquant'anni del discorso e della marcia. Risultato: il sito ha contestato la violazione del copyright e ha rimosso il filmato, probabilmente su richiesta delle fondazioni che gestiscono l'eredità intellettuale e politica di Martin Luther King (nonché il suo merchandising). «Volevo fare un atto di disobbedienza civile», ha protestato Greer usando la stessa terminologia cara al movimento di cui King è tuttora l'uomo simbolo. Evidentemente la disobbedienza non è uguale per tutti.
C'è da dire che non si può accusare gli eredi di aver tradito la volontà del grande affabulatore, oggi celebrato anche come l'uomo che ha iniziato a tracciare il sentiero che ha portato Barack Obama alla Casa Bianca. King, già pochi mesi dopo la marcia, aveva intentato una causa contro la Cbs per aver trasmesso un documentario che mostrava larghe parti del discorso. In primo grado il giudice diede ragione al network tv, ma la corte d'Appello rovesciò il verdetto. La Cbs però in seguito si accordò per chiudere la vertenza prima di arrivare a una definizione completa della situazione generale, ancora aperta. L'emittente molti anni dopo annunciò di aver avuto il permesso di usare i propri stralci di filmato. In cambio ha elargito una non specificata «donazione» al Centro King per il cambiamento sociale non violento, fondato dalla moglie del leader. Lo stesso centro che vende il dvd di quel discorso per 20 dollari. E potrà farlo in esclusiva fino allo scadere dei diritti, nel 2038, a 70 anni dalla morte.
I familiari però respingono l'accusa di voler lucrare su un mito che ormai è un patrimonio di tutti. Martin Luther King III, figlio dell'ultima moglie del pastore, lo ha ribadito in un libro. Ma in fondo non è certo una novità: King ha semplicemente percorrendo passo dopo passo tutto il percorso di «iconizzazione» che ha coinvolto tanti grandi della cultura e della politica. Era un affabulatore come John Fitzgerald Kennedy e come lui è morto in un attentato, il suo viso è trasfigurato in simbolo presente in quadri, magliette e gadget come Che Guevara, dopo la sua morte, come per John Lennon e tanti altri, sono uscite biografie che mettono in luce lati oscuri trascurati dall'agiografia entusiastica (lo accusano tra l'altro di aver plagiato «I have a dream»).


Ma è un mito che resiste, specie ora che scatta automatico il paragone con Obama. E pazienza se, come ricorda una ricerca del Pew Center, negli anni del presidente nero, il gap di ricchezza tra bianchi e afroamericani è aumentato del dieci per cento.

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