L'ultima è stata trovata su una spiaggia della penisola di Skallingen. Era il 2009 e la Danimarca credeva di essersi già liberata dall'incubo. Invece l'incubo si è chiuso solo pochi giorni fa, quando quella mina è stata rimossa dal suolo e la Danimarca si è proclamata, insieme a Gambia, Guinea-Bissau, Giordania, Repubblica del Congo e Uganda, uno degli ultimi sei Paesi ad aver bonificato il proprio territorio e oggi ufficialmente mine-free, libero dalle mine. Anche nella pacifica e progredita Europa, ci sono voluti 67 anni per stanare appena ottomila ordigni sul territorio danese. Un dato che offre la misura di una sfida globale ben più difficile da vincere. Nel mondo, secondo le stime delle Nazioni Unite, sono ancora circa 110 milioni le mine disseminate dai Balcani al Medio Oriente fino al Sud Est asiatico, sia in mare che in terra: 23 milioni solo in Egitto, 10 milioni in Afghanistan, 16 milioni in Iran, 10-20 in Angola, 3 milioni nella vicina Bosnia. Ventimila le vittime ogni anno, di cui un terzo sono bambini. Feriti, mutilati o uccisi da questi residuati di guerra che colpiscono anche quando le armi tacciono: è di appena sei giorni fa la strage di dieci bambine in Afghanistan. Con un triste primato che ci riguarda: fino ai primi anni Novanta, l'Italia è stata fra i principali produttori di mine terrestri e anti-uomo. Poi la firma al trattato di Ottawa del 1997, con il nostro Paese impegnato a osservare il divieto di produzione, acquisto, vendita o utilizzo delle mine anti-uomo. «L'Italia ha eccelso nella produzione, ora ha insieme un obbligo morale e una grande opportunità per contribuire alla soluzione del problema», spiega Manoli Taxler, che alla luce dell'esperienza accumulata nel suo lavoro per conto delle Nazioni Unite, da Haiti al Sudafrica alla Somalia, a settembre ha fondato la Onlus «Associazione per lo Sminamento umanitario». Con un chiaro intento: trovare canali non commerciali per il finanziamento di operazioni di sminamento umanitario e delle attività ad esso collegate, dall'educazione delle popolazioni al rischio delle mine, alla cura delle vittime fino alla distruzione dei depositi. «Il nostro obiettivo è mettere insieme professionisti del settore, a loro vogliamo lasciare le attività operative. Io e gli altri soci ci occuperemo di trovare fondi, con l'intento di erogarli ad associazioni già specializzate, alle Ong straniere che già operano nel settore, a programmi di sminamento già avviati». Il traguardo - insiste Taxler - è quello delle zero vittime in un anno.
Per questo servono denaro e professionalità. D'altra parte ci vogliono circa 2-3 euro per produrre una mina ma mediamente più di mille per distruggerla. Un lavoro lungo e difficile, il cui esito più sicuro si ottiene con un intervento manuale, che richiede personale specializzato che proviene prevalentemente, ma non esclusivamente, dall'esercito. Un lavoro che può richiedere l'utilizzo di macchine o il supporto di cani addestrati a fiutare l'esplosivo o addirittura di ratti sminatori e che va effettuato in condizioni particolari, quando le temperature non sono troppo alte né troppo basse e dopo un'attenta valutazione delle condizioni del terreno. «Perché non succeda quello che accade in Irak, dove i bimbi vengono mandati dai loro genitori a raccogliere ferraglia per poi rivenderla a peso, ma tornano a casa senza una mano o senza una gamba - racconta Taxler -. O come succede in Sud Sudan, dove le popolazioni cacciate dalle proprie terre dopo anni di conflitto vorrebbero rientrare nelle loro case, coltivare il terreno che ha lasciato loro il nonno, ma non possono perché i campi sono completamente minati».
Ora anche l'Italia può fare la sua parte.
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