No, non hanno dimenticato. Dal drammatico default del 2001, con quell'insopportabile carico di tragedie umane, gli argentini hanno smesso, parafrasando Osvaldo Soriano, di «pensare con i piedi». Non basta la chirurgica crudeltà con cui Messi depone la palla in gol, alimentando la ola albiceleste in tutte le piazze: è solo una tregua, un assaggio di assenzio che libera la mente per novanta minuti. L'ansia resta, radicata appena sotto il cuore. Roba di stomaco che risale fino alla testa, non appena sul partido si spengono i riflettori, per ricordarti che c'è un'altra bancarotta nell'aria, un altro punto interrogativo sul futuro di un intero popolo abituato a vivere pericolosamente, sempre sul filo del rasoio. Un po' come Maradona: dribbling come poesie di un Borges in pantaloncini, ma anche l'inferno della cocaina.
Gli argentini sanno di vivere in una terra ricca, ricchissima. Hanno tutto: gas, petrolio, pampas sterminate, sole e vento. Negli anni '30 prestavano quattrini a todos. Se lo potevano permettere. Settant'anni dopo, erano diventati quelli che non pagano i debiti facendo piangere - tra i tanti- anche 200mila italiani. Umiliati, dal Nord di Salta all'estremo Sud di Rio Gallegos, da un buco da 100 miliardi di dollari, il punto terminale di politiche economiche dissennate. Hanno voluto l'abbraccio mortale col dollaro, un folle rapporto di 1 a 1, per sparare a pallettoni contro l'inflazione. Sbagliando completamente il bersaglio. Nel '98 la Russia va a gambe all'aria, il Sud-Est asiatico barcolla e, soprattutto, i rivali brasiliani svalutano il real: i capitali scappano e le merci argentine - troppo care - non le vuole più nessuno. Si rompe il rapporto paritario col dollaro, in un diluvio di tasse e di tagli alla spesa che strizzano i consumi e aprono la strada alla recessione. Poi altre misure disastrose, quelle mai dimenticate da coloro piegati dalla sciagura del corralito, il piccolo recinto che soffoca in un cappio i risparmi depositati in banca, impedendone il ritiro e lasciandoli dissanguare dalla svalutazione-monstre del peso. Arriva il default. Per tanti, troppi, è l'inizio di una storia di miseria senza nobiltà. Forse mai finita.
La romantica indolenza che è l'essenza del tango non spiega perché l'Argentina sia spesso nei guai. Gli ultimi 15 anni, scanditi dall'arrivo alla Casa Rosada di 5 presidenti, sono stati un continuo pencolare tra la condanna al dramma e la resurrezione. Fra il 2003 e il 2011 il Paese è cresciuto in media del 7-8%, intascando ricchi dividendi dalle materie prime agricole e potendo contare sulla rifioritura di consumi e investimenti legata alla rimozione dei vincoli di cambio e al calo dei tassi. Poi, nel 2012, la frenata: il surplus commerciale si sgonfia, i prezzi si dilatano e la bolletta energetica va alle stelle. Se andrà bene, il 2014 si chiuderà con un +1%. Il governo ha reagito col solito pugno autoritario, nonostante Cristina Kirchner sia l'espressione della sinistra peronista. Poco più di un anno fa, un milione di argentini incazzati, con pentole e padelle in mano, si è riversato nelle strade per urlare «Bugiarda» alla presidenta. Accusata, peraltro, anche da un'altra Christine, la Lagarde del Fmi, di aver barato sul Pil e, soprattutto, sull'inflazione. Un 7% secondo le stime ufficiali, il 30% secondo famiglie e imprese. La Kirchner ha abbassato la testa e corretto il tiro.
Poi, però, è arrivata dagli Usa la sentenza che obbliga Baires a risarcire, se non si troverà un accordo entro fine mese, 1,3 miliardi di dollari agli hedge fund che non hanno aderito al taglio di due terzi del debito.
Soldi che l'Argentina non vuole scucire: se lo facesse, sarebbe costretta a pagare 15 miliardi per i bond non rientrati nel concambio. Quattrini che non ha: sarebbe default, sarebbero ancora milioni a gridare, come nel 2001, «Que se vayan todos». Tutti a casa. Non hanno dimenticato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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