I marò restano bloccati in India vittime di una vergognosa melina giudiziaria. Da Roma il nostro ministero degli Esteri alza la vocina, ma non abbastanza. Quello della Difesa, invece, continua a fidarsi della magistratura indiana e quasi la giustifica facendo capire che pure da noi la giustizia ha tempi biblici. Ieri abbiamo assistito al solito balletto legale, che ha portato all'ennesimo, inevitabile rinvio. Il tribunale di Kollam, dove Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono accusati dell'omicidio di due pescatori, mentre erano in servizio antipirateria, ha rinviato il processo all'8 novembre. Su richiesta dei difensori, che non potevano fare altro.
Il vero nodo da sciogliere è a Delhi, la capitale. La Corte suprema indiana non ha ancora deciso se dare o meno ragione all'Italia che chiede il rientro in patria dei marò. I motivi sono due: difetto di giurisdizione e immunità funzionale. Il dibattimento alla Corte suprema si era chiuso il 4 settembre. I giudici Altamas Kabir ed il collega J. Chelameswar avrebbero dovuto decidere in un paio di settimane. Poi si è scoperto che Kabir doveva assumere l'incarico di presidente della Corte suprema. Per questo era circolata la data del 29 settembre e poi ancora un'ulteriore rinvio fino ad oggi. Tutte scadenze non rispettate e da qualche giorno si parla di arrivare all'agognata sentenza a fine mese.
In risposta il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha alzato la vocina. Ieri, in un'audizione alla Camera, si è detto «allibito» del fatto che «uno Stato di diritto come l'India non riesca ad esprimere con un minimo di coraggio, in tempi rapidi, chiari e definiti la sentenza della Corte Suprema, consentendo ai nostri militari di tornare a casa». Poi ha anticipato la «rappresaglia». Se non si arriverà alla liberazione dei due marò l'Italia è pronta a «una serie di azioni a livello internazionale» che aprirebbero «una controversia tra Stati». Un colpetto di reni che in pratica porterà alla denuncia dell'India a qualche corte internazionale. Buona idea, che forse andava applicata subito, ma che rischia di trasformarsi in un lungo e farraginoso contenzioso fra Stati. Il rischio è che i due marò escano dalla trappola indiana, magari a testa alta, ma con i capelli bianchi.
Terzi ha certo a cuore la loro sorte, ma speriamo che la Farnesina studi mosse più nerborute, a cominciare dal ritiro e non richiamo temporaneo del nostro ambasciatore a Delhi. Non solo: l'ambasciatore indiano a Roma potrebbe venir considerato «persona non grata». Se non si vuole arrivare a tanto almeno pungoliamo gli indiani boicottando il loro periodo di presidenza, da settembre a dicembre, del Gruppo di contatto sulla pirateria al largo della Somalia, che Delhi sbandiera all'Onu.
Ieri ha esternato sui marò anche il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, ex ammiraglio, che si è dimostrato ancor più moscio del suo collega degli Esteri: «Li stiamo seguendo tutti i giorni, c'é la presenza costante di un team di 5-6 persone dal 15 febbraio. Siamo fiduciosi nella Corte Suprema indiana, che ha i suoi tempi, ma non è che in altri Paesi la giustizia sia più veloce».
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