Mamma Shi Shi se lo stringe disperata al seno. Lui è un batuffolo d'ovatta riverso a pancia in su. Glielo strappano dalle zampe, gli massaggiano il cuoricino, scoppiano a piangere. Era nato da sei giorni, non aveva manco un nome, eppure quel bioccolo di panda era l'orgoglio del Giappone, l'incarnazione della secolare rivalità con la Cina. Ma è durato un soffio. Se n'è andato mentre tre motovedette di Pechino puntavano sulle Senkaku, tre scogli dimenticati icona di tutte le contese. E s'è trasformato in una fonte di mesti presagi. Da ieri mattina la sua foto campeggia su tutti i quotidiani, mentre le televisioni ritrasmettono le immagini della sua nascita, le sovrappongono a quelle del corpicino senza fiato, le intervallano con i lacrimoni di Toshimitsu Doi, il direttore dello zoo di Tokyo che spiega i risultati dell'autopsia, racconta delle gocce di latte assassino spillate dalle mammelle, rigurgitate dalla gola, tracimate nella trachea, precipitate nei polmoni.
«Metà dei cuccioli di panda muore così e per quelli in cattività le percentuali sono ancora più crudeli» - ripetono gli esperti. Vaglielo a dire ai giapponesi. Per loro il figlio di mamma Shi Shi e papà Ri Ri non era come gli altri. Era il loro cucciolo di panda, il figlio del Sol Levante, il primo nato in uno zoo giapponese da 24 anni. E non solo. Come tutti i panda, mamma Shi Shi e papà Ri Ri arrivavano dalla Cina. Per averli, lo zoo di Tokyo aveva firmato un contratto da 800 mila euro all'anno con l'impegno a restituire sia loro, sia l'eventuale progenie. Era successo agli inizi del 2011. Dodici mesi dopo, mentre il paese si scrollava di dosso la tragedia del terremoto e dello tsunami, la lieta novella, la metafora dell'attesa rinascita. Grazie all'aiuto dei più grandi esperti giapponesi, papà Ri Ri aveva fatto l'impresa. Prima aveva atteso, paziente come un buddha, le uniche 72 ore di calore concesse da madre natura a una femmina di panda nell'arco di un anno. Poi, preciso come un impollinatore svizzero, aveva sfruttato al meglio le uniche irripetibili 24 ore in cui Shi Shi poteva riprodursi. E c'era riuscito nonostante la cattività. Roba da far schiumare di rabbia i cinesi padri padroni di 1600 panda selvatici e di 300 esemplari allevati. Roba da mandar in estasi i cantori dell'orgoglio nazionale giapponese. Primo fra tutti Shintaro Ishihara, lo scrittore-politico che da 13 anni governa Tokyo alla stregua di un «daimyo» feudale. Rapito dalla simbologia di quei natali, il governatore - ribattezzato il Le Pen del Giappone - aveva subito annunciato che quel cucciolo di panda avrebbe preso il nome di Sen Sen o Kaku Kaku. Un riferimento alla contesa delle Senkaku, fin troppo evidente. Una sfida pronunciata mentre il governo di Tokyo si prepara ad acquistare dai proprietari privati le tre isole contese e a cancellare le silenziose intese, concordate in passato, per renderne meno esplicita la sovranità e impedire ai cittadini giapponesi di metterci piede. La sfida aveva subito innescato la risposta cinese. «Quello di Ishihara è solo un goffo tentativo d'avvelenare i rapporti - sottolineava un portavoce del ministro degli Esteri di Pechino - qualsiasi nome gli diano quei panda restano cinesi. Come lo sono le Diaoyu (il nome cinese dell'arcipelago ndr) e le isole adiacenti». Una precisazione seguita dall'arrivo delle tre motovedette di Pechino al largo dell'arcipelago e dalla piccata controreazione di Tokyo, che convocava l'ambasciatore cinese per fargli sapere di considerare quell'intrusione «estremamente seria» e «inaccettabile». Insomma toni da guerra fredda.
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