Quando le guerre aiutano i candidati

Quando le guerre aiutano i candidati

L’intervento militare «umanitario» in Libia co­minciò il 19 marzo 2011 con un attacco dei cacciabombardieri francesi e finì sette mesi dopo, a ottobre, con la cattura e il linciaggio del colonnello Gheddafi. Anche allora, a firmare l’epilogo di una guerra che si pensava più «lampo» di come poi si rivelò, furono i caccia francesi che attaccarono, scompaginandolo, il corteo di fuoristrada che stava portando Gheddafi e il suo seguito fuori da Sirte. Sei mesi dopo, stretto da una malinconica congiuntura elettorale che la «guerra di Libia» avrebbe dovuto scongiurare, dirottando verso il suo Ump una messe di voti drenandoli dal Fronte Nationale di Marine Le Pen, il presidente francese ci riprova.

Un altro intervento, anche questo «umanitario», certo, mancherebbe. Destinatario, un altro ceffo che si presta magnificamente alla bisogna: il presidente siriano Bashar al Assad. Per ora è solo un gran flettere di muscoli, ma i precedenti dicono che a Sarkozy questi interventi «umanitari» piacciono da morire. Soprattutto se a morire poi sono gli altri. Si deciderà in fretta, perché non c’è un minuto da perdere. Il 5 maggio è in programma l’intervento dell’inviato speciale Kofi Annan al Consiglio di sicurezza dell’Onu, e il giorno dopo i fuochi d’artificio del secondo turno delle presidenziali in Francia.

Se la mediazione fallirà, Parigi e i suoi partner si muoveranno per un intervento militare. Fare la faccia feroce, e all’occorrenza impugnare la mazza ferrata funziona sempre, del resto, come sanno i leader di mezzo mondo, non esclusi i molto democratici premier delle grandi democrazie occidentali. Vi ricordate la Thatcher? Era la primavera del 1982, e la lady di ferro, stretta nell’angolo di una popolarità in calo, cavò dal cilindro la magica idea della «guerra delle Falkland». Gli argentini avevano avuto la cattiva idea di invadere quegli speroni di roccia buoni si e no per le pecore, e la Thatcher mosse la flotta risvegliando l’orgoglio nazionale degli inglesi e consentendole di trionfare alle successive elezioni come Cesare di ritorno dalla Gallia. Lo stesso fece George Bush junior, all’indomani dell’11 settembre. Scatenare l’Air Force contro i talebani, in Afghanistan, fu una sorta di riflesso condizionato e una mossa indiscutibilmente vincente, sotto il profilo elettorale.

È la stessa «filosofia» cui si ispira Vladimir Putin, che alle ricorrenti difficoltà sul fronte interno oppone un attivismo muscolare teso a titillare il nazionalismo russo e a tonificare l’orgoglio nazionale. Di qui le puntuali minacce di rispolverare le testate nucleari dell’arsenale ex sovietico e lo spauracchio puntualmente agitato di tornare al clima di «Gorky Park», quello della Guerra Fredda. Ma è nei regimi dittatoriali, o para dittatoriali, che il trucco della «faccia feroce» funziona in modo anche più remunerativo, sotto il profilo propagandistico e della coesione sociale. La Corea del Nord di Kim Il Sung, il «presidente eterno» e di suo figlio Kim Jong Il, il «caro leader», con le loro minacce di guerra e il loro programma missilistico-nucleare hanno fatto scuola... Lo stesso dicasi per il presidente iraniano Ahmadinejad, che poggia il suo potere su due stampelle propagandistiche: la distruzione minacciata di Israele e la promessa di schiantare il grande Satana americano.

E se Ahmadinejad è il gatto, il venezuelano Hugo Chavez, compagno di merende dell’iraniano e amico per la pelle di Fidel Castro, è la volpe: il suo partner dall’altra parte del mondo. L’obiettivo è lo stesso: la santa alleanza contro gli Stati Uniti intorno alla quale agglutinare i favori di un elettorato fervidamente nazionalista.

Un po’ quello che, mutatis mutandis, fa il leader turco Erdogan, la cui politica estera avventurosamente aggressiva lo ha indotto a «rompere» con Israele per affermare il ruolo della Turchia in un mondo islamico alla ricerca di un leader forte e credibile.

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