La Libia è nel caos e l'Italia rischia il suo gas. A due anni dalla rivolta contro Gheddafi e dall'intervento della Nato i nodi vengono al pettine. Da sabato sera i cinquecento chilometri di tubature del Greenstream, il gasdotto dell'Eni che attraversa il Mediterraneo e approda a Gela, non sputano più un fiato di gas. E resterà così fino a quando il governo libico non riuscirà a mettere fine agli scontri tra milizie divampati 48 ore fa intorno agli stabilimenti della Mellitah Oil & Gas. Dal centro di convogliamento, gestito congiuntamente dall'Eni e dalla National Oil Corporation, partono gli 8 miliardi di metri cubi di gas che raggiungono ogni anno il nostro Paese e garantiscono il dieci per cento dei consumi italiani: in attesa del ripristino di Greenstream dobbiamo rinunciarvi.
A dar retta al vice ministro della difesa libico Khalid Sharif non c'è da preoccuparsi. Il governo e le milizie avrebbero già raggiunto «un accordo per immediato cessate il fuoco e il ritiro delle brigate dalla zona, il rilascio dei prigionieri e la formazione di una commissione per l'attuazione dell'accordo tra le parti». In Libia però le già scarse sicurezze son morte con Gheddafi e quindi qualche preoccupazione per le nostre forniture permane. La prima incertezza deriva dal carattere degli scontri che coinvolgono lo stabilimento di Mellitah Oil & Gas e la vicina città di Zuara. La battaglia scoppiata sabato tra le milizie berbere di Zuara e quelle arabe delle vicine cittadine di Jumyl e Ragdelin è semplicemente la prosecuzione di quella iniziata nel febbraio 2011, subito dopo la rivolta di Zuara contro Gheddafi. Una battaglia riaccesasi lo scorso aprile quando i combattimenti paralizzarono Zuara e dintorni. Il problema è sempre lo stesso. Gli arabi filogheddafiani di Jumyl e Ragdelin non tollerano l'egemonia dei berberi di Zuara.
Il problema più serio è però l'assenza di un'autorità centrale in grado di metter fine allo scontro. L'esercito di Tripoli, per ammissione dello stesso viceministro della difesa, arriverà sul posto solo oggi. Il governo dunque non ha unità militari in zona e la gestione della sicurezza, come l'amministrazione del territorio, restano nelle mani dei capitribù locali.
La situazione caratterizza tutta la Libia post gheddafiana e rischia di mettere a repentaglio non solo le forniture di gas, ma anche quelle di petrolio. Il greggio che arriva in Italia dalla Cirenaica ruota attorno allo storico giacimento di Abu Attifel, rimesso in produzione dall'Eni nell'ottobre 2011. Ma se il pozzo funziona la sicurezza della regione non è fra le migliori. I gruppi fondamentalisti che dettano legge a Bengasi e Derna potrebbero sottrarre l'intera Cirenaica al controllo di Tripoli e mettere a repentaglio gli impianti di Attifel. Lo stesso dicasi per il pozzo di El Feel, 800 chilometri a sud di Tripoli. Basta dare un'occhiata ad una cartina per rendersi conto di come il complesso isolato nel deserto sia sulla rotta seguita dai militanti di Al Qaida che a gennaio attraversarono la Libia e ne varcarono i confini per far strage di ostaggi nello stabilimento algerino di In Amenas.
A questa situazione d'instabilità s'aggiunge la paralisi politico-istituzionale. Il Congresso nazionale eletto a giugno non è ancora riuscito a nominare la consulta incaricata di varare la nuova Costituzione: si è così deciso di ricorrere a nuove elezioni. Per la nuova Costituzione insomma bisognerà aspettare almeno un altro anno.
Continuano inoltre le violenze contro i cristiani:
ieri un gruppo di uomini armati ha attaccato una chiesa a Bengasi aggredendo due preti della comunità copta egiziana. Sabato 50 copti erano stati arrestati sempre nel capoluogo della Cirenaica con l'accusa di proselitismo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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