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Siria, la tragedia non finisce. E il paese è spaccato in tre

I morti sono 140mila, i profughi 2,5 milioni. I negoziati sono falliti e si continua a morire (anche di fame). Tra i ribelli i jihadisti e a combattere sempre più mercenari stranieri

Siria, la tragedia non finisce. E il paese è spaccato in tre

Gli studenti siriani che, un po' per sfida, nel marzo di tre anni fa fecero scoppiare la rivolta a Damasco, non avrebbero mai immaginato di arrivare a 140mila morti (di cui circa 7mila bambini) e 2,5 milioni di profughi, 6,5 milioni di sfollati interni. La protesta iniziò in modo pacifico, per ottenere maggiori spazi di libertà e spazzare via le vetuste restrizioni imposte da un regime al potere da più di 40 anni: giocarono un ruolo decisivo i social network, le tv satellitari del Golfo e il "consenso" occidentale, in primis da parte degli Stati Uniti, verso l'onda lunga della rivolta denominata "Primavera araba". Salvo rare concessioni (ad esempio la fine della legge di emergenza in vigore dal 1963), Assad rispose concedendo pochissimo ai ribelli e si chiuse a riccio cominciando a parlare di terrorismo e pensando di uscire dalla crisi con la sola forza pubblica. La protesta, però, crebbe sempre più e divenne opposizione armata, con la formazione di un vero e proprio esercito di liberazione. Solo in un secondo momento in Siria arrivarono i jihadisti, arrivando a spaccare il fronte stesso dei ribelli.

Oggi il paese è lacerato in tre parti che si fronteggiano a viso aperto: il Nordest, in mano a qaedisti e curdi; il Nordovest controllato in larga parte dalle forze ribelli laiche; il Centrosud sotto il dominio dei lealisti, fedeli a Bashar al Assad. L'esercito di Damasco in tre anni si è quasi dimezzato, soprattutto per le numerosissime diserzioni di soldati e ufficiali, che via via si sono uniti ai ribelli. Le forze lealiste hanno parzialmente arginato l'emorragia grazie alle formazioni militari provenienti dall'estero, in primis dal Libano (Hezbollah), ma anche dall'Iraq (milizie sciite) e dall'Iran. D'altro canto anche i ribelli hanno visto ingrossare le proprie file grazie all'apporto di combattenti provenienti da altri paesi, tanto che oggi il loro campo sostanzialmente si divide in quattro, spesso in durissima lotta l'uno contro l'altro. Vediamo quali sono. L'Esercito libero siriano, che fa riferimento alla Coalizione nazionale dei rivoluzionari siriani, nata dalla convergenza di vari gruppi: al suo interno sono rappresentate le forze più secolari - che sono all'opposizione - e le numerose comunità religiose. Il Fronte islamico, il Fronte di liberazione della Siria e i gruppi jihadisti che simpatizzano per al Qaeda. Questi ultimi, a loro volta, comprendono due fazioni: il Fronte al-Nusra e lo Stato islamico in Iraq e Siria. Acerrime nemiche, esercitano un forte appeal in termini di arruolamento di combattenti (mercenari) provenienti dall'estero, interessati più che altro a combattere per l'islamizzazione del paese. Particolarmente feroci sono le stragi compiute da al Nusra, soprattutto contro i cristiani.

Come si può capire il mosaico è complicatissimo e pieno di sfaccettature. Il dato che balza subito all'occhio è che il fronte dei ribelli è profondamente spaccato, a tutto vantaggio dei lealisti, che non a caso hanno riconquistato posizioni, grazie al fondamentale apporto degli Hezbollah libanesi. E la comunità internazionale come ha reagito? All'inizio parteggiando per l'una e l'altra parte, come avviene sempre nelle crisi internazionali (politiche e militari). Poi, dopo lo scandalo scoppiato per l'uso delle armi chimiche da parte del regime nei sobborghi di Damasco controllati dai ribelli, nell' agosto scorso, minacciando durissime reazioni. Siamo arrivati a un passo dall'intervento militare (americano ma non solo), scongiurato solo per le fortissima opposizione di Russia e Cina e, bisogna riconoscerlo, di Papa Francesco, che si è molto battuto per arginare l'escalation militare. Un risultato la comunità internazionale l'ha ottenuto: Assad ha rinunciato alle armi chimiche. Che però, è bene ricordarlo, non sono ancora state smantellate. Per il resto bisogna riconoscere il totale fallimento degli sforzi diplomatici, che non sono riusciti, a Ginevra, a dare uno sbocco positivo al dialogo tra le parti in conflitto. Neanche nei minimi termini, l'apertura di corridoi umanitari a protezione dei civili e la condanna di un uso troppo duro della forza da parte di Damasco. Non c'è stato niente da fare: ogni risoluzione è stata stoppata dal veto di Mosca e Pechino. E in Siria si continua a combattere e a morire. Non solo per le armi ma anche per la fame. Amnesty parla di centinaia di morti per denutrizione.

Difficile trovare il bandolo della matassa. L'impressione è che ancora tanto sangue debba scorrere, sul campo, prima di riuscire a riaprire il dialogo tra le parti e fermare le armi. Con il rischio che la polveriera siriana possa, per qualche ragione, far deflagrare una guerra di ancor più grandi dimensioni, magari a seguito dell'intervento di altre forze in campo, quali ad esempio Israele, la Turchia o l'Iran. Certo, se Assad accettasse di farsi da parte, e se i jihadisti fossero messi all'angolo una volta per tutte, la soluzione forse sarebbe più facile. Ma allo stato attuale così non è.

Intanto c'è da registrare un altro dettaglio: il mediatore dell’Onu per la Siria, Lakhdar Brahimi, domenica si recherà in Iran dove incontrerà il presidente iraniano, Hassan Rohani, e il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif. Nella regione l'Iran è il principale sostenitore di Assad.

E lui, come la maggior parte degli alti dirigenti del regime, appartiene alla comunità alawita, corrente religiosa affine allo sciismo, maggioritario a Teheran e dintorni.

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