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Sposa lo stupratore e poi si toglie la vita

Aveva 16 anni, il padre e un giudice l’avevano costretta a vivere con il suo carnefice

Sposa lo stupratore  e poi si toglie la vita

Dicono che Amina l’abbiano suicidata. Non è stata lei ad uccidersi, lei, a sedici anni, ha prestato soltanto le sue mani all’ultimo gesto, quello che le è servito a ingerire una dose mortale di veleno per topi. Quello che l’ha liberata. Ma tutto ciò che è stato prima, e intorno ad Amina, è quello che l’ha suicidata, come dicono i sostenitori della sua causa su twitter, attiviste, blogger ma anche gran parte della società civile del Marocco.

La storia di Amina Filali è semplice. E incomprensibile. Ha quindici anni quando Mustafa Sallak, dieci anni più vecchio, la stupra. Il padre di Amina, come tutti i padri, denuncia Mustafa per «perversione di minore». Ma poi il padre di Amina, il papà che dovrebbe proteggere la sua bambina, fa qualcosa che inizia a ucciderla: si accorda con la famiglia di Mustafa per un «matrimonio riparatore». Perché davanti agli occhi e al cuore del padre di Amina non c’è la sua piccola violentata, la figlia a cui è stata sconvolta l’esistenza: c’è l’onore della famiglia (doppia, visto che l’uomo ha due mogli). Perché con lo stupro Amina ha perso la verginità e così, oltre a soffrire, fa soffrire la sua famiglia, ma non per empatia, no, perché ne macchia l’onore. E l’onore non è un concetto teorico, va aggiustato, va riparato, a qualunque costo. Ma i legislatori sono magnanimi, ci tengono a tutelare certi valori, e allora il codice penale prevede un escamotage, all’articolo 475: basta che lo stupratore sposi la sua vittima, e l’onore sarà salvo. Certo, lui poi eviterà il carcere perché così facendo ha riconosciuto, implicitamente, il suo crimine, quindi non c’è necessità che sconti la pena (da cinque a dieci anni, che salgono a venti se la violenza è su una minorenne). Insomma i due padri, quello di Amina e quello di Mustafa, si accordano per le nozze. E siccome lei è minorenne, serve l’approvazione di un giudice: che arriva, puntuale, da un’aula di Larache, vicino a Tangeri. Lì davanti, ieri, trecento attivisti hanno protestato, contro chi ha dato l’avallo della legge a un assassinio. A pochi chilometri, nello stesso momento, c’era il funerale di Amina.

L’orrore di Amina è finito con un orribile veleno per topi, ma lei quella vita non poteva più sopportarla. A casa dei suoceri da quasi un anno, trattata come una bestia e insultata tutti i giorni: «sucia», le dicevano, insomma una zoccola, lei, ad avere provocato il povero Mustafa e avergli rovinato la vita. Aveva provato a scappare dai genitori, ma il padre l’aveva respinta. «Però è vero che là non stava bene» ha ammesso a El Pais. Così l’altro sabato Amina ha inghiottito il veleno, poi ha iniziato a gridare, lacerata dal dolore, e Mustafa l’ha portata in ospedale, ma non è servito a nulla. Il destino forse, finalmente, l’ha graziata, dopo che la legge e le tradizioni avevano graziato già da tempo i suoi assassini.

Ma ora chi pagherà per Amina? È quello che si chiedono molti attivisti, soprattutto donne, in questi giorni in Marocco. Dove, nelle zone rurali, la tradizione è così radicata che la storia di Amina è diventata pubblica dopo tre giorni. Ma la riforma del codice penale è chiesta da più parti: una petizione on line per cancellare l’«articolo criminale», il 475 che ha condannato Amina all’infelicità e all’ingiustizia, ha raccolto centinaia di firme in poche ore. E ieri, dopo giorni di mobilitazioni, il ministro per la Solidarietà, la donna e la famiglia Bassima Hakkawi (unica donna del nuovo governo islamista di Benkirane) ha detto che in effetti è «un vero problema» e ha promesso che ci sarà «un dibattito per riformare questa legge».

Che già, in parte, è stata «modernizzata»: per esempio, ora serve l’autorizzazione di un giudice per fare sposare i figli, se minorenni. Poi però magari il giudice pensa che sia giusto che una ragazzina violentata sposi il suo carnefice, per non turbare i principi saldi della famiglia.

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