"Twitter, coerenza e tanti soldi Così ho fatto vincere Obama"

Non perde dal 1993. Ecco perché il presidente l'ha chiamato e l'ha promosso: "Quest'anno il capo della campagna sei tu". E lui ha inventato un nuovo modo di convincere l'America

Jim Messina è stato artefice della rielezione di Obama
Jim Messina è stato artefice della rielezione di Obama

Firenze - Se Obama avesse perso, sarebbe stata colpa sua. Perché è Jim Messina l'uomo che ha ideato, gestito e organizzato la campagna per la rielezione. Ma Messina non perde dal 1993. Ha cominciato allora a gestire una campagna elettorale: era per un sindaco del Montana, lui non era ancora laureato. Del resto già a dieci anni impersonò Carter a una recita scolastica. Lui la racconta così: «Volevo già fare politica. Il mio primo stipendio era di trecento dollari al mese». In diciannove anni ha fatto venti campagne, «dall'Alaska a New York, con le Converse ai piedi». Poi nel 2008 lo chiama Obama per fare parte del team. «Mi disse: devi venire a Chicago fra due giorni. Ho chiesto consiglio a mia madre, mi ha detto: se non accetti ti diseredo. Due giorni dopo ero lì».
Vice di Rahm Emanuel, il capo dello staff. Ora la racconta così, con la faccia vincente di un ragazzino timido, un quarantaduenne potentissimo che arrossisce ancora davanti al pubblico della New York University di Firenze, che nella sede di Villa La Pietra, grazie alla National Italian American Foundation (Niaf) ha organizzato un incontro con quello che è stato definito «il Ceo di Obama», e «l'uomo dietro la vittoria» del presidente. Perché a dicembre 2010, come racconta, è alle Hawaii e Obama gli annuncia: «Devi lasciare Washington». Non viene licenziato, viene spedito a Chicago a gestire la campagna elettorale. «Io sognavo di diventare Josh Lyman di West Wing, ma ho capito subito: sarebbe stata la cosa più grandiosa della mia vita professionale. Ancora oggi mi chiedo: come è possibile?».
La risposta tecnicamente è in una strategia quasi scientifica, quasi maniacale. Messina si è studiato le campagne elettorali «degli ultimi cento anni» e poi - dice - «ho parlato con alcune persone molto intelligenti, di tecnologia, pubblicità...». Le persone sarebbero Eric Schmidt, ex Ceo di Google, Anna Wintour, Steven Spielberg e perfino Steve Jobs. «Dissi subito al presidente: sarà una campagna tutta diversa dal 2008. Lui mi rispose: pensavo fosse andata bene...». Ma secondo Messina bisognava «reinventare tutto»: «In quattro anni sono esplosi Facebook, Youtube, Twitter, gli smartphone. È cambiato tutto. E poi i soldi, i superPacs che consentono di donare fondi per milioni come mai in passato». La risposta per Messina è duplice: «La tecnologia da un lato e l'interazione umana dall'altro». Racconta che «nell'ultimo mese prima delle elezioni negli swing states ogni cittadino ha visto sessanta spot di Obama a settimana, e ottanta-novanta di Romney». Che significa? Che la strategia era cambiata. «Perché noi, i nostri volontari, sono andati a bussare porta a porta, hanno fatto telefonate, hanno fatto lobbying con i familiari, con gli amici, e anche con gli amici su Facebook, coi contatti su Twitter».
Non è che voglia attribuirsi tutto il merito: «È che Obama aveva una visione per il Paese. Lo staff è stato fondamentale». Un punto di svolta? «Il mio lavoro è preoccuparmi...». È certo, per lui, che i due candidati avessero «due visioni diverse dell'elettorato» e quale fosse quella vincente. Di quell'elettorato ora lo staff di Obama conosce tutto: un data base immenso, un patrimonio che vale milioni di dollari. Che ne faranno? Messina ci scherza sopra, ma è evasivo: «Beh, probabilmente avrete ricevuto una email da me... Credo sia importante che continuiamo ad ascoltare la gente che ci ha sostenuto, i nostri elettori vogliono essere coinvolti, sentirsi parte del processo politico». In realtà quello che il presidente ha ribattezzato il Dashboard, una miriade di dati su ogni aspetto delle abitudini di milioni di americani, farebbe gola a qualunque candidato nei prossimi anni.
Per Messina quello che conta di queste elezioni - e che rimarrà una lezione per il futuro - è che «il contatto umano sarà sempre più cruciale, nelle prossime campagne ci sarà un lavoro sempre più da persona a persona». La parte più difficile di una campagna? «Sono due. La prima è immaginare una campagna coerente, lineare: non si può cambiare strada al primo consiglio nuovo, al primo evento inaspettato. Bisogna avere un visione presidenziale vera e comunicare una campagna vera. Per questo, anche dopo la delusione del primo dibattito televisivo non abbiamo cambiato strategia: l'uomo e il messaggio restavano quelli, cioè Obama» (racconta che dopo quel primo dibattito Messina ha riunito lo staff e ha detto: «Ok, è un momento difficile», e che per lui quella è stata solo «una serata no»). L'altra vera sfida - dice - sono i soldi: «I superPacs hanno speso oltre un miliardo di dollari, noi siamo riusciti a raccogliere milioni dai piccoli donatori, via email, ma non so se questo possa funzionare anche con un candidato diverso da Obama. Perciò non saprei in futuro come possa andare. Noi avevamo 450 impiegati, migliaia di volontari: è stato come gestire una grande azienda, una sfida enorme. Ma anche fantastica».

E ora che cosa farà? «Sono in Italia per un mese: mi rilasso, dormo, sto con la donna che amo. Potrò pensare al futuro. Giro per cantine e assaggio il vostro vino fantastico. E mi disinteresso della politica: ho visto solo Juventus-Torino».

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