Milano - C’è una Milano diversa, là fuori. Una città schiva e discreta, che non è centro e non sarà mai periferia, che rifugge l’esibizione e sceglie il silenzio. Ma anche dentro è il silenzio, unico suono tollerabile quando a bussare è il dolore, ad attutire ogni rumore e quasi a ovattare l’appartamento al quarto piano di viale San Gimignano 12, dove la notte scorsa si è spenta Maria Antonietta Beretta, nata Berlusconi, sorella di Silvio, il presidente del Consiglio, e di Paolo, editore di questo giornale.
Soltanto sussurri, passi felpati, carezze consolatorie.
Sorride, per non piangere, Maria Antonietta Leoni, che dell’amica Etta, come la chiamavano tutti, aveva curiosamente anche lo stesso nome. «Il 3 febbraio scorso, giorno in cui cadeva il primo anniversario dalla morte di sua mamma, lei aveva scelto negli armadi un fazzoletto e una borsetta della signora Rosa. Aveva anche fatto modificare alcuni suoi abiti per poterli indossare lei, per continuare a sentirla vicina, quasi addosso, protettrice come lo era stata in vita. Tutta la vita».
Sorride, ricaccia in gola le lacrime e lascia affiorare per primo questo ricordo, Maria Antonietta, che della scomparsa era amica da quasi trent’anni, collega di lavoro da otto, ma soprattutto sorella acquisita come lo fosse da sempre, dalla nascita. E poi altri spezzoni, altre testimonianze di un lessico familiare fatto di sentimenti profondi, vengono e fluiscono, andando a comporre un ritratto che va perfettamente a coincidere, si direbbe a combaciare, con quello tratteggiato dalla memoria di chiunque l’abbia conosciuta.
Per lei, infatti, hanno tutti i medesimi aggettivi - «riservata, schiva, umile, seria» - gli stessi usati da padre Egidio Porfiri, della vicina parrocchia dei Santi Patroni d’Italia, che la ricorda praticante assidua, ma soprattutto «donna che non ha mai utilizzato né il nome né l’ascesa economica e politica del fratello. E che come tutta la famiglia, papà Luigi e mamma Rosa per primi, indossava la normalità, vivendo la ricchezza solo come un aiuto di Dio, una possibilità in più da utilizzare a favore degli altri».
Aveva due passioni, Etta. Anche su questo concordano tutti: prima la famiglia e per seconda la danza. O meglio, ne aveva tre, perché proprio come nel padre e nei fratelli, anche in lei batteva un inguaribile cuore matto rossonero. «Avremmo dovuto vederci a San Siro, a tifare contro il Werder Brema proprio stasera», racconta l’amica, direttrice della scuola di danza Principessa, fondata insieme otto anni prima e in cui lavorava come insegnante anche la figlia maggiore, la trentacinquenne Sabrina. E con l’angoscia di chi sa che non ci sarà più una simile occasione, ricorda la triste coincidenza di un’altra vigilia di coppa, quella di vent’anni fa, funestata dalla morte di papà Luigi. Sempre nel mese di febbraio, proprio come un anno fa mamma Rosa e come Etta ieri. E dire che per Thomas Eliot era aprile, invece, il più crudele dei mesi...
Quasi a voler cancellare i brutti pensieri, l’amica e collega di arabesque e di demi plié si passa una mano sugli occhi per tornare piuttosto a ricordare le cose più belle, i momenti sereni. Di come Etta, per esempio, avesse passato alla figlia «quella sua passione entusiastica, quasi totalizzante per la danza, che la portava a ballare come una ragazzina in ogni occasione possibile, anche a casa o nelle feste dagli amici».
Danza che per lei rappresentava inoltre l’orgoglio di essere riuscita a reinventarsi e a realizzarsi come imprenditrice - dopo una vita di mamma e casalinga - trovandosi a capo di una scuola di successo, con 15 maestre e un migliaio di alunne e alunni di ogni età.
E quel voler trasmettere la sua stessa passione costituiva anche, in fondo, quasi un prolungamento di quel senso della famiglia ereditato dalla mamma e riversato poi sui figli maschi (battezzati Paolo e Silvio, come gli zii) e sul marito Giorgio.
Per non parlare del rapporto con i fratelli. «Loro due, iperprotettivi nei suoi confronti, semplicemente li adorava - racconta l’amica - al punto di avermi confessato l’ingiustificata paura che dopo la morte della mamma loro si potessero, chissà perché, allontanare da lei. “Dovrò dire ai maschi - mi ripeteva - che quando non ci sarò più proteggano Sabrina come fanno i miei fratelli con me”».
Parole che fanno piangere Giuliana Speziale, l’infermiera per sei anni angelo custode di mamma Rosa, proprio nell’appartamento al piano di sopra, di giorno e di notte, dal caffè del mattino al rosario prima di coricarsi. Una ormai di famiglia, che con orgoglio si sente considerata come tale e che con i suoi occhi inarrestabilmente lucidi conferma quel rapporto così stretto e di complicità tra Etta e i due fratelli.
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