Da quando Ilaria Salis è stata eletta al Parlamento europeo sta portando avanti dalla sede istituzione massima del Continente le stesse battaglie che ha condotto da attivista dei centri sociali. A queste si è aggiunta quella contro l'Ungheria di Viktor Orban, che potrebbe sembrare quasi personale per i toni che l'europarlamentare utilizza nei confronti del primo ministro magiaro. Le ragioni sono note, due anni fa Salis è stata arrestata in Ungheria con l'accusa di aver partecipato a un'aggressione antifascista contro alcuni attivisti di destra. Non è in carcere solo perché è stata eletta al parlamento europeo, candidatura funzionale proprio alla scarcerazione, e questo ha fatto nascere dissidi e scontri tra Salis e gli esponenti del governo inglese.
L'ultimo attacco di Ilaria Salis è di poche ore fa, prendendo spunto dal voto in commissione LIBE sullo stato di diritto in Ungheria. "L’articolo 7 è lo strumento attraverso cui l’Unione può sanzionare gli Stati membri che violano in modo grave e persistente i suoi valori fondamentali: stato di diritto, democrazia e diritti umani. E nel 2025 i deputati del Parlamento europeo hanno constatato un ulteriore peggioramento della situazione in Ungheria", ha dichiarato Salis, aggiungendo che "Il divieto del Pride di Budapest è solo la punta dell’iceberg: sotto il regime di Orbán, la compressione sistematica dei diritti è ormai un fatto compiuto. I media sono controllati, il dissenso è soffocato, il potere politico si è trasformato in uno strumento di oppressione".
Finché il Consiglio europeo, ha dichiarato Salis, "continuerà a decidere all’unanimità, ogni meccanismo di tutela resterà ostaggio dei veti politici. E l’autocrazia di Orbán, purtroppo, può contare su chi la copre e la difende. L’Europa, se vuole essere qualcosa di meglio di quanto è oggi, non può restare ostaggio degli Orbán di turno". Se non rispetti i diritti, è la chiusa di Salis, "allora ciao".
Sembra che sia tutto molto semplice per Salis, che utilizza un linguaggio non certo adeguato a quello che è il suo ruolo. Carola Rackete, che come lei è nata con l'attivismo, si è resa conto che quella è la sua cifra, non l'istituzionalità. E si è dimessa.