Persino a un passo dalla fine nessuno aveva osato chiamarli eurobond. Li hanno chiamati così solo dopo che qualcuno ha avuto il coraggio di pronunciare la parola proibita. Emmanuel Macron lo ha fatto con la solita spregiudicatezza francese, rivendicando apertamente ciò che a Bruxelles si cercava di camuffare. Novanta miliardi di debito comune, garantiti dal bilancio Ue, per finanziare l’Ucraina.
Traduzione brutale: l’Europa emette debito per comprare armi. Si potrà parlare di prestito, di strumento pragmatico, di «visibilità per Kiev». Ma la sostanza non cambia. Per la prima volta l’Unione Europea sfonda davvero il tetto del debito condiviso, e lo fa per una finalità militare, per di più a favore di un Paese terzo. Una svolta politica di portata storica, fatta passare come un atto tecnico. È il primo mattone di una nuova architettura: una struttura finanziaria pensata per costruire, finalmente, un apparato difensivo europeo.
Altro che green bond e investimenti etici: qui si parla di cannoni, munizioni, industria militare. Infatti la «clausola preferenziale» per le imprese Ue e ucraine non è un dettaglio, ma il cuore politico dell’operazione.
La notizia vera, però, è un’altra: la Germania ha ceduto. Il tabù tedesco del debito comune è stato infranto. Non per aiutare i Paesi mediterranei, ma perché la realtà strategica ha bussato alla porta. Meglio condividere il rischio con Roma e Parigi che restare paralizzati dal rigore mentre la guerra bussa ai confini. E qui Macron può anche prendersi il microfono, ma senza Giorgia Meloni non si sarebbe arrivati a tanto. È stata la pervicacia della premier italiana, la sua capacità di mediare tra falchi del rigore e fautori dell’integrazione, a rendere politicamente digeribile l’operazione. L’Italia, da sempre guardata con sospetto quando parla di debito comune, è diventata l’asse su cui si è costruito il compromesso.
Gli eurobond, cacciati dalla porta, rientrano dalla finestra. In mimetica.