EVTUŠENKO Il destino di essere figli di Puškin

Parla il poeta russo, eretico e ribelle: «Non ho mai pensato di fuggire dall’Urss, ma non condanno chi scelse l’esilio: era rischioso vivere nei Paesi dell’Est»

L’appuntamento per l’intervista è all’Hotel Crivis a Milano. L’incontro è con Evgenij Aleksandrovic Evtušenko, nato a Zima (Irkutsk, Siberia) nel 1933, il grande scrittore, poeta e regista amante del neorealismo italiano, caposcuola della generazione poetica post-staliniana nonché brillante e polemico portavoce dell’Urss del disgelo sempre in bilico tra ortodossia e dissidenza. In Italia è stato tra gli anni Sessanta e Ottanta lo scrittore sovietico probabilmente più tradotto e conosciuto.
L’appuntamento è nella hall dell’albergo, dove Evtušenko è impegnato in una conversazione al cellulare con il cronista di turno: è arrivato in Italia per parlare del suo libro fresco di stampa Nel Paese di Come Se a cura di Giovanna Ioli con la traduzione di Evelina Pascucci, una raccolta di poesie e racconti di forte impatto emotivo (Viennepierre edizioni, pagg. 115, euro 15). Sta «ablando» di Putin in un italiano spagnolizzato (o viceversa) di chi, come lui, è reduce da Cuba dove è stato il protagonista del Festival della Poesia che si è appena concluso. Parla «di come la Russia non sia facile da governare, di come sia un Paese di luci e ombre, che lui non è il portavoce di Putin il quale comunque fa il suo bravo lavoro come può, che i problemi da risolvere sono tanti...». Un discorso di cui è facile perdere il filo a causa dell’abbigliamento psichedelico di colui che nel 1957 fu accusato di individualismo, espulso dall’Associazione dei Giovani Comunisti e dall’Istituto di letteratura a causa del suo nichlismo: sandali color senape e calzini color topo, pantaloni a quadretti bianchi e azzurri, t-shirt tra il rosa e il pervinca, giacca multicolore a spirali concentriche e cappellino ton sur ton. In seguito scopriremo che lui stesso disegna le stoffe e i modelli e che ha una collezione di vestiti in tutte le sfumature possibili.
Terminata l’intervista via cavo, inizia ad «ablare» di massimi sistemi. Difficile stargli dietro. «Vuole sapere se mi piace vivere nella Russia di oggi? Non è una questione di “piacere”, è una questione di destino, ho sempre vissuto da figlio della mia terra. Puškin è mio padre, un mio compatriota. Il poeta è come un albero con le radici che affondano nella terra da cui trae la linfa vitale e solo così può abbracciare tutta l'umanità con le sue fronde».
Passiamo ad altro. La domanda è di come sia riuscito a continuare a scrivere e a essere pubblicato in Urss ma anche in Occidente quando i suoi illustri colleghi se ne sono andati all’estero (penso a scrittori e intellettuali del pianeta sovietico come il ceco Milan Kundera, l’albanese Ismail Kadaré, il polacco Gustav Herling e via elencando). Nel corso della Guerra fredda alcuni non gli perdonavano infatti di non essere totalmente un dissidente. «Personalmente non ho mai pensato di emigrare - afferma tranquillo - ma non posso condannare chi ha scelto l’esilio. Era rischioso rimanere in quei Paesi». Detto questo gli va riconosciuto a onor del merito di avere saputo prendere posizioni coraggiose (anche se mai davvero estreme) e soprattutto di essersi dato molto da fare a difendere dissidenti come Sinjavskij e Solzenicyn. Anche se quello della dissidenza è un tema che implica un lungo discorso.
Dal 1993 Evtušenko insegna letteratura russa all’Università americana di Tulsa (Oklahoma), dalla quale ha ricevuto la laurea honoris causa: «Quello che mi interessa oggi è di educare le nuove generazioni americane ad amare la grande letteratura russa, penso a Dostoevskij, Puškin, Achmatova ma anche a grandi poeti come Fyodor Ivanovich Tiutchev: è sorprendente di quanto siano attuali, soprattutto quest’ultimo, e come siano utili per capire anche la Russia contemporanea, un Paese che non si può misurare secondo valutazioni e interpretazioni comuni o convenzionali. Nella Russia - conclude - bisogna soltanto credere e aver fede».
Parliamo ancora un po’ della Russia di oggi, delle ricchezze concentrate, di bakshish (ovvero la «mancia» - tangente che apre tutte le porte in quella che assomiglia a una sorta di Tangentopoli in salsa russa, una «Bakshihopol» assai diffusa...

), di corruzioni, ma anche di un Paese che ha saputo esprimere il Bello, come una letteratura e una poesia straordinarie che hanno saputo toccare le coscienze di intere generazioni in tutto il mondo. I venti minuti per l’intervista sono scaduti, la Rai lo attende, ma ci sarebbero ancora molte cose di cui parlare.
m.gersony@tin.it

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