D'accordo, adesso però non esageriamo. Siamo stati fra i primi a denunciare gli schiaffi che Milano sta prendendo sul muso, dal pasticcio Expo al tradimento Malpensa. Tra i primi a lamentare che, quando c'è da mettere mano al portafoglio, per lo Stato questa città viene sempre dopo: dopo i debiti di Roma - alla quale comunque vengono concessi ulteriori privilegi - e dopo i catastrofici bilanci di Catania o Palermo, caricati sulle spalle dei contribuenti. Perciò siamo stati fra i primi a esclamare «alla faccia del governo amico!», come in questi ultimi giorni fanno a gara a gridare quotidiani di destra e di sinistra, dedicando pagine intere a Milano «romanizzata» (la Repubblica), o «che non corre più» (La Stampa) o «abbandonata» da Berlusconi (Libero). E non abbiamo aspettato che altri ci spiegassero come tutto questo dipenda dalla progressiva romanizzazione e meridionalizzazione del Pdl. È vero, questa città non ha più una leadership forte. Per molte ragioni, troppo complesse per parlarne qui, ma anche perché faceva affidamento su una «maggioranza amica». Che invece guarda altrove, costretta anche dalle emergenze.
E siamo stati facili profeti ad annunciare che a guadagnarci alle prossime lezioni sarà la Lega. Che però, appagata dal federalismo fiscale e dalle norme sulla sicurezza, istintivamente attratta dalla provincia, a Milano dedicherà poca attenzione, se non per ragioni di poltrone, come dimostra il caso Expo. D'accordo su tutto questo, dunque, ma non esageriamo: le cose si stanno facendo, i grattacieli crescono e la città sta cambiando il suo profilo e la sua struttura urbana, unica in Italia alla faccia della crisi. Ma anche alla faccia del partito del «comunque no», composto da fantomatici «comitati», sovrintendenti frustrati, architetti invidiosi, ecologisti reazionari e sindacalisti nostalgici. Partito minoritario ma ascoltatissimo, soprattutto da quei giornali e dal quella sinistra che poi denunciano la paralisi.
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