La fabbrica di bugie del ventriloquo anti-Cav

Ciancimino ha costruito con lo stesso metodo del copia e incolla anche le sue accuse a Berlusconi. E nessuno ha mosso un dito

La fabbrica di bugie  
del ventriloquo anti-Cav

di Gian Marco Chiocci e Mariateresa Conti

I copia e incolla di Massimo Ciancimino non sono tutti uguali. C’è quello che accusa l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, sul quale i pm di Palermo indagano e che due giorni fa ha portato Ciancimino junior in galera, con l’accusa di calunnia aggravata. E c’è il copia e incolla che chiama in causa il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, un più che probabile falso pluri-denunciato - dal Giornale e in un’aula di giustizia, quella di Palermo in cui si celebra il processo al generale Mario Mori - che però non produce alcun effetto: niente indagini, niente perizie, niente di niente. La presunta calunnia al premier in carica non conta, quella al superpoliziotto sì. La calunnia all’ex capo della polizia costa il carcere, quella al Cav nulla, anzi magari si premia con un paio di ospitate in tv.
Eppure le analogie tra i due casi sono a dir poco inquietanti. Oggi, per l’accusa, Ciancimino junior avrebbe «appiccicato», su un appunto del padre che elencava 12 uomini delle istituzioni (quelli che Massimuccio sostiene appartenessero a un fantomatico quarto livello invischiato nella trattativa tra lo Stato e i boss), il nome di De Gennaro, vergato sì dal padre ma in un documento in cui si parlava di tutt’altro e in cui non venivano lanciate accuse all’ex capo della polizia. Esattamente quello che, secondo la ricostruzione della difesa del generale Mori, sarebbe accaduto anche per la letterina sulla presunta origine in odor di mafia di Forza Italia, scritta, Ciancimino junior dixit, da papà don Vito per conto di Provenzano e indirizzata al premier Silvio Berlusconi e a Marcello Dell’Utri.
Tralasciando le mille bufale raccontate sulla datazione della lettera e sulla sua origine da Massimuccio - sull’argomento dal 30 giugno del 2009, quando ne parla per la prima volta con i pm cambiando sempre versione e finendo con l’ammettere che mentiva, sino all’8 febbraio del 2010, quando con un colpo di teatro Ciancimino junior porta in aula la lettera al processo Mori - vale la pena concentrarsi sull’intestazione, per conoscenza, «al presidente del Consiglio dei ministri on. Silvio Berlusconi». Subito sotto questa dicitura, posta al centro in cima al foglio, ci sono degli strani segni, che nulla hanno a che fare col testo. L’impressione che dà la lettera, che è tronca all’inizio e alla fine, è che le due righe iniziali che indicano il destinatario siano state incollate da un altro testo.
Fantasie? Non esattamente. Perché qualche mese dopo lo show d’aula di Ciancimino junior (la storia della presunta origine mafiosa di Forza Italia e della lettera indirizzata al premier occupò per giorni i giornali e le elucubrazioni della stampa di sinistra anti-Cav) la prova che nella letterina portata in aula mancassero le ultime righe arriva a mezzo stampa. O meglio a mezzo libro, visto che nel frattempo Ciancimino, già opinionista antimafia dei salotti tv di sinistra, è diventato anche scrittore con «Don Vito. Le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione», una biografia-confessione scritta a quattro mani con l’editorialista de La Stampa Francesco La Licata. Nel testo, a pagina 229, presentata come «una seconda parte della bozza di lettera di Vito Ciancimino» c’è un documento identico in parte alla lettera monca prodotta in aula, ma contenente tre righe in più, un riferimento alla convocazione di una conferenza stampa. Tre righe «tagliate», dunque. Perché? Forse per aggiungere in testa al foglio l’intestazione al premier?
L’argomento avrebbe meritato un briciolo di approfondimento. Almeno una perizia, giusto per fugare i dubbi, pesantissimi, sollevati in aula dai difensori di Mori nel settembre scorso. E invece, misteriosamente, nulla. La lettera potenziale calunnia nei confronti del premier non è stata presa in considerazione, non sarebbe stata nemmeno mandata alla polizia scientifica per verificarne l’autenticità, perché gli accertamenti disposti dai pm - come è emerso in aula - hanno riguardato soltanto il materiale via via fornito da Ciancimino junior nel corso degli interrogatori, non quello prodotto in aula, come la letterina indirizzata al Cav. Tutto il contrario di quanto accaduto sul biglietto col nome di De Gennaro.
E tutto il contrario rispetto a quanto è avvenuto con un altro documento figlio di un probabile copia e incolla, uno dei 55 atti consegnati da Ciancimino junior ai pm palermitani a corredo dell’ormai celebre «papello», l’elenco di richieste di Totò Riina per fermare la strategia stragista del ’92. Questo foglio, che i consulenti della Procura di Palermo hanno definito «manipolato», si compone di due parti: sulla sinistra, in stampatello, un elenco di temi che richiamano il Cavaliere (vengono citati Dell’Utri e la Edilnord); a destra, in corsivo, degli appunti manoscritti di Vito Ciancimino. «Berlusconi-Ciancimino», recita uno. E un altro appunto: «Milano truffa e bancarotta». Il documento, hanno concluso i periti, è «manipolato», perché la citazione di Berlusconi compare, identica, anche in un altro documento pure agli atti. Insomma, un copia e incolla da un originale unico. Come nel caso dell’intestazione della lettera al premier. Come nel caso del biglietto con il cognome De Gennaro collegato al fantomatico signor Franco/Carlo, il misterioso uomo del quale Ciancimino junior non ha mai rivelato l’identità (sostiene di non conoscerla) e che sarebbe stato per anni il trait d’union tra lo Stato e Cosa nostra.
Patacche, bugie, mescolate a qualche verità per acquisire punti in credibilità, per diventare, come si vantava sino a ieri Massimuccio, un’«icona dell’antimafia». Ieri, davanti ai pm di Palermo che sono volati a Parma per interrogarlo in carcere, Ciancimino ha negato tutto. «Non ho falsificato alcun documento» ha ripetuto, a tratti in lacrime, ai pm. E per cercare di ridarsi un patentino di credibilità, ha spedito poliziotti e artificieri nella sua casa del salotto chic di Palermo, in via Torrearsa. «C’è dell’esplosivo», ha raccontato ai magistrati sostenendo di averlo ricevuto come minaccia e di averlo nascosto per non allarmare per l’ennesima volta i familiari. L’esplosivo, ovviamente, c’era.

Anzi, era quasi un arsenale: 13 candelotti, 21 detonatori, due micce. E i pm di Palermo, a Ciancimino, non credono più. La parola adesso passa al gip di Parma. La decisione sull’oracolo anti-Cav finito in disgrazia è attesa per oggi.

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