«La fabbrica non c’è più Operai pagati lo stesso»

Come nel film Amici miei. «Una mattina arrivo in fabbrica, trovo una scritta in vernice rossa fatta col pennello e scopro: lo stabilimento sarà demolito». Non si trattava, come nel film, di uno scherzo. La fabbrica è stata realmente abbattuta dalle ruspe tre mesi dopo. Non parliamo di Italia, naturalmente, ma di Cina: un piccolo esempio di quanto i due mondi siano diversi e di come la storia del mugnaio di Sans Souci appartenga solo al nostro. Chi racconta è Alfio Morone, 61 anni, di Vigevano (Pavia), titolare di un’azienda fondata dal padre, la Adler, che fabbrica frizioni per motociclette in tre stabilimenti: in Italia, a Rovereto, dove occupa 100 persone, in India, 700 persone, e in Cina, 160.
Qui la Adler - che fattura in tutto 70 milioni, il 70% all’estero - si è insediata 20 anni fa, prima con un socio cinese al 50%, oggi da sola, dopo aver rilevato la quota di questo. Insomma, nel novembre del 2010 Morone ha saputo così, all’improvviso e senza carte bollate, che i suoi capannoni in affitto e tutti quelli della zona industriale di Jinan, città da 6 milioni di abitanti, sarebbero stati abbattuti per far posto a un parco. «Abbiamo cercato di resistere - racconta - e almeno di chiedere tempo, ma non c’è stato verso: le autorità ci hanno risposto che il 31 dicembre, quindi un mese dopo, ci avrebbero staccato la corrente. Nessuna discussione». É stata una corsa contro il tempo. «Poiché in Cina produciamo pezzi per l’industria europea, abbiamo immediatamente avviato il lavoro su tre turni per aumentare le scorte al massimo e non lasciare i nostri clienti senza forniture. Abbiamo anche assunto personale temporaneo. Ai primi di gennaio sono arrivate le ruspe nell’area e hanno cominciato a demolire dai nostri vicini, mentre noi continuavamo il lavoro temendo ogni giorno di non poter riaprire. Ci hanno lasciati tranquilli, forse per un senso di rispetto perché siamo gli unici stranieri, fino alla fine di febbraio. Intanto avevamo individuato nuovi locali dove abbiamo trasferito i macchinari e continuato il lavoro». La nuova fabbrica, vicina all’aeroporto di Jinan, è più moderna e più funzionale della precedente: l’inaugurazione ufficiale è della settimana scorsa, presenti anche le autorità che avevano firmato il decreto di demolizione. Nonostante la brutta avventura «i rapporti sono buoni - assicura Morone - e, in quanto stranieri, siamo guardati con occhi orgogliosi dalla municipalità». Anche perché la Adler paga gli operai almeno il 30% più delle altre imprese, ha messo a disposizione dei dipendenti dei bus per raggiungere la nuova fabbrica, ha la mensa interna, gli spogliatoi, i bagni per le donne e standard di sicurezza europei: tutte cose preziose nell’industria cinese. E nei periodi di chiusura non ha interrotto i salari ai suoi operai.

Questa storia un po’ paradossale si presta almeno a un paio di considerazioni: che delocalizzare vuol dire talvolta sottoporsi anche a rischi imprevedibili; e che la Cina è un Paese autoritario che decide. Se Torino e Lione fossero laggiù, avrebbero il treno ad alta velocità almeno da 10 anni.

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