Falsi miti in passerella per la rivoluzione cinese

Morello inventa Elvis in un quartiere orientale. Extè fa il pop

Paola Bulbarelli

da Milano

La Cina è vicina per davvero, ora. E non si capisce più se la si guarda con un brivido di paura che attraversa la schiena o con l’occhio avido dell’industriale che nel paese più popoloso del mondo vede milioni e milioni di possibili acquirenti. Da conquistatori o da conquistati comunque, il futuro sta lì. Vuoi perché fino a ieri non avevano nulla (non che abbiano ancora molto), vuoi perché grazie a internet cominciano a capire cosa ci sta fuori dai confini, vuoi che cominciano ad assaporare la piacevolezza della vita non più offesa nella propria libertà, sta di fatto che hanno iniziato a mettere la testa fuori dal guscio. E allora chi c’è c’è e bisogna fare in fretta visto che loro, i cosiddetti paesi emergenti, vanno a mille all’ora.
«Noi non abbiamo più quella velocità», dice Miuccia Prada. Forse è vero. D’altronde, e senza forse, non abbiamo mai avuto il comunismo in casa. E la libertà non poteva essere contraffatta come si fa con la moda. Diverte (le aziende non si divertono affatto) vedere a esempio, che da Frankie Morello, marchio prodotto dal gruppo Gerani, si sdrammatizza il grave problema del copiare scherzandoci sopra. E allora in un ipotetico quartiere cinese, in un attimo il nome diventa Monkie Dorello, la musica è una insieme di famosi motivi ma falsi, i personaggi in passerella diventano le copie di Elvis o di Little Tony. Prada, in effetti, sostiene che copiano sì, ma male. Per fortuna, perché la nostra forza sta ancora lì, nella nostra professionalità. Che abbinata alla creatività dovrebbe (per quanto ancora?) essere vincente. «Esasperare i dettagli, enfatizzare i simboli, copiare se stessi», dice Frankie Morello. Abiti sartoriali in raso lucente allora, jeans attaccati alla mutanda parlata (con scritte e nomi ben visibili), stampe con cuori, cornetti, teschi. Autocelebrativo per essere riconoscibile, in pratica. Ci si deve distinguere grazie a un logo, a un disegno pop. Al pop ci pensa Sergio Ciucci stilista di Extè con tinte giallo limone e verde prato, con rossi e rosa confetto, con il bianco e il blu. «L’uomo di Extè è un englishman trasferito a Cuba», spiega. E che vuol dire? Vuol dire che gli piace l’abito impeccabile ma se mette in mostra il fisico possente, o le maglie jacquard se enfatizzano bicipiti e addominali, impalpabili camicie di batista ma da supermacho. Un uomo dai mille volti, da film. Al punto che proprio durante la sfilata è anche stato girato il primo ciak di Cover Boy di Carmine Amoroso. Piacciono anche a Carlo Pignatelli gli attori (ne veste tanti) ma preferisce i calciatori (ne veste ancor di più soprattutto quando si sposano o se sono della Juve). Pignatelli d’altronde è un nome su cui si può puntare senza sbagliare. Ha pensato pure allo sposo rock: tutto nero, giacca damascata, scarpe tempestate di Swarovski.
Se si parla di rock spunta Ozwald Boateng che prepara le mise di George Michael mentre se si parla di cinema, ecco che spunta Belstaff, il marchio più cinematografico che ci sia.

25 i film all’attivo con abbigliamenti per le star hollywoodiane più famose, un Oscar con Leonardo Di Caprio che indossava un giubbotto Belstaff in Aviator, e ora Tom Cruise che nella Guerra dei mondi, porta la «Hero Jacket», straordinario giubbotto in bisonte invecchiato, pezzi numerati (solo 5mila in tutto il mondo) da prenotare.

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