Politica

Le falsità dei moralisti da pantano

Addirittura due pezzi in prima pagina su altrettanti quotidiani, la Repubblica e il Manifesto, dedicati alla mia trascurabile persona colpevole di essere tornata alla direzione del Giornale che ha un difetto imperdonabile: appartiene alla famiglia Berlusconi. Il noto moralista dell’ultima ora, Giuseppe D’Avanzo, sul quotidiano di San Carlo De Benedetti sfodera nell’occasione una figura retorica per lui nuova: l’ironia. Dimenticandosi che questa è un’arma pericolosa se maneggiata senza perizia; può uccidere chi la usa e non chi dovrebbe esserne colpito. Il lettore frettoloso, come la maggioranza dei lettori, bevendosi la prosa di D’Avanzo non capisce se è di fronte a un paradosso, cioè a una verità acrobatica, o a qualcosa da prendersi alla lettera. Intendiamoci, lungi da me il desiderio di criticare lo stile dell’insigne editorialista: semmai voglio segnalare che il mio censore, nell’impegno del suo esercizio, perde di vista la realtà e mi attribuisce concetti mai espressi nel fondo d’esordio. Un esempio.

Nel riportare una mia frase allo scopo di sottolineare quanto sono cretino, sbaglia. O imbroglia?

Io avevo battuto: «Fosse dimostrato che l’Avvocato Agnelli non era quel gran signore lodato, imitato, indicato da tutti quale modello, ma un furfante...». D’Avanzo invece modifica e virgoletta: «Questo furfante di un Agnelli, scrive Feltri, ha sottratto soldi al fisco...».

Vi sembra un modo corretto di polemizzare o non piuttosto la manipolazione di un testo, la distorsione del pensiero altrui a fini speculativi?

Un altro punto prova la malafede dell’articolista progressista.

Nel mio pezzo osservavo: non è giusto condannare un personaggio prima della sentenza. Peccato che mentre per Agnelli questo principio è stato rispettato, per Berlusconi no. Ebbene, secondo D’Avanzo, Feltri «decide di liberarsi di quell’inutile fardello che è il garantismo, favola buona soltanto per il Capo e gli amici del Capo, e picchia duro, durissimo» (su Agnelli). Esattamente il contrario di quanto ho affermato.

È incredibile come la Repubblica pur di attaccare un avversario arrivi a stravolgerne completamente le idee, falsificando con spudoratezza perfino le sue parole stampate. Come si fa ad aver fiducia di giornali così? Tra l’altro, per criticare me non c’è bisogno di inventare, caro D’Avanzo; non occorre spremersi la fantasia, basta un po’ di intelligenza. Coraggio, puoi farcela anche tu. Ma non devi più elencare tutte le presunte malefatte di Berlusconi; non serve perché da quindici anni voi non parlate d’altro e la giustizia milanese non fa che organizzare in proposito inchieste e processi dall’esito nullo. Già, nullo. E non dire che ciò è dipeso e dipende dal lodo Alfano, in vigore da un anno soltanto.

Quanto alle presunte menzogne del Cavaliere, finché riguardano corna e similari non ne tengo conto: non ho i titoli né la fedina sessuale adatta per impancarmi a giudice. Lascio a te, che sei puro come un giglio, questo compito.

E veniamo al Manifesto. Che ieri ha pubblicato un corsivo dal titolo: «Feltri, a Papi serve l’Avvocato», nel quale fra una spiritosaggine e un’altra, difende come si conviene a un giornale comunista la memoria offesa del capitalista Gianni Agnelli. Il pezzo si conclude con una trovata geniale: «... prendersela col padrone morto per salvare l’utilizzatore finale vivo. Ma senza megafono, mi raccomando».

Manca un particolare: il padrone è morto, ma i suoi soldi sono vivi e gli eredi si scannano per intascarli, fisco permettendo.

Per concludere, una carezza, anzi due, a Travaglio che firma per la trecentesima volta lo stesso articolo su di me. Lo sfido a pescare nella mia non esigua produzione giornalistica una frase con la quale abbia chiesto scusa a Di Pietro.

Seconda carezza. Se è vero che la questione fiscale relativa al patrimonio dell’Avvocato è già stata appianata a metà degli anni Novanta, perché Margherita Agnelli l’ha scoperta solo adesso? E perché l’Agenzia delle entrate se ne interessa tanto?

Chiedo scusa ai lettori per aver inflitto loro questo pistolotto, ma è bene si sappia che il Giornale non è uno zerbino per le scarpe sporche di chi cammina nel pantano.

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