«È falso che sia scappato: ai pm serviva un latitante»

Lui era malato, ma pretesero la consegna dei passaporti

Un’operazione giudiziaria in tre punti. «Primo: il ritiro pretestuoso del passaporto. Secondo: la creazione a tavolino della figura del latitante. Terzo: celebrare i processi senza l’imputato, già dipinto come il Colpevole». Non si può dire che Salvatore Lo Giudice ami le celebrazioni. Oggi Lo Giudice è un affermato penalista, ma allora, negli anni Novanta, si faceva le ossa nello studio del padre Enzo. E con lui condivise la difesa di Bettino Craxi: «Andai decine di volte ad Hammamet, trascorsi con il leader socialista lunghe giornate, passai settimane a studiare le contestazioni che si accumulavano, ma era difficile, molto difficile. Il Paese intero remava contro e la magistratura sfruttò il clima giacobino per vincere i processi prima ancora di celebrarli».
Come?
«Cominciamo col dire che Craxi non è mai scappato».
È morto in Tunisia.
«Un attimo. Craxi riconobbe le proprie responsabilità in Parlamento, il finanziamento illecito dei partiti, poi iniziò a collaborare con l’autorità giudiziaria».
Si riferisce ai colloqui con Di Pietro?
«Certo. Un capitolo rimosso. La storia, la storia giudiziaria di Craxi, stava prendendo un’altra piega. Quei meeting, segreti, erano finalizzati al patteggiamento per il reato di finanziamento illecito. Ma qualcuno si mise di traverso, i verbali di Craxi finirono sui giornali, la collaborazione si interruppe. E non certo per volontà di Craxi».
Poi?
«Poi venne inventata la figura del latitante. Apparentemente attraverso un iter legittimo, in realtà perverso e viziato. La magistratura milanese si sentiva forte e voleva portare alle estreme conseguenze lo scontro con il potere politico. Così, sciolto il Parlamento, fu adottata la misura collettiva del divieto di espatrio per gli ex parlamentari sulla base di inesistenti pericoli di fuga».
Il Pool utilizzò gli strumenti previsti dalla legge.
«Craxi stava male, non poteva rientrare in Italia, ma si pretese ugualmente la riconsegna di tutti i passaporti. Il 12 maggio ’94 la Digos bussò al campanello della casa milanese di via Foppa. Craxi non c’era, giravano voci incontrollabili: si diceva che fosse fuggito, che avesse nascosto chissà quali tesori, che avesse falsificato i documenti, anche perché su uno dei passaporti restituiti c’erano delle macchie di inchiostro. Insomma, si utilizzò strumentalmente il passaporto per provocare la latitanza di Craxi».
Che arrivò un anno dopo, a luglio ’95, con l’ordine di cattura per le tangenti della Metropolitana milanese.
«La latitanza in vitro partorì la sua creatura perfetta: l’ex presidente del Consiglio latitante. La storia era già finita, ma il processo doveva ancora iniziare».
Veramente Craxi fu sepolto sotto una valanga di ordini di custodia e poi di processi: Eni-Sai, Metropolitana, Enel, Ambrosiano, Enimont.
«A differenza degli altri partiti, nei quali il segretario politico godeva dello schermo del segretario amministrativo, cui era demandata l’attività di gestione e reperimento, anche illecito, delle risorse, a causa della morte del tesoriere Vincenzo Balzamo, il 2 novembre ’92, Craxi ereditò in toto le responsabilità del Psi. Che accettò, è bene ricordarlo, limitatamente al fenomeno del finanziamento illecito, respingendo ogni coinvolgimento in fatti di corruzione».
E le condanne, anche pesanti, per corruzione, che arrivarono a grappolo?
«L’indagine unica, che nell’ideale sviluppo di una corretta dialettica di collaborazione con l’autorità giudiziaria, avrebbe potuto portare ad un patteggiamento per il finanziamento illecito, da sempre ammesso, ipotesi peraltro inizialmente condivisa con lo stesso Di Pietro, si spaccò. Si frammentò in innumerevoli processi per corruzione che si celebravano anche nello stesso giorno. Comunque, non si è mai dimostrato un solo episodio in cui Craxi abbia partecipato ad accordi illeciti per l’assegnazione di appalti».
Come influì il processo Cusani, celebrato fra il ’93 e il ’94 in un clima pesantissimo, sulla costruzione delle accuse?
«Risultò devastante. Di Pietro divenne un eroe nazionale e il processo penale uno spettacolo. Allo stesso Di Pietro non parve vero. Ne fece una istruttoria dibattimentale “globale”, senza il contraddittorio delle parti interessate, dunque senza la difesa, e lo riversò integralmente negli altri processi. Dove i dichiaranti sfilavano avvalendosi della facoltà di non rispondere e gli atti venivano acquisiti formando la prova di colpevolezza. Dovette intervenire il legislatore costituzionale a porvi rimedio. Anche quella riforma la si deve a Craxi».
Oggi il Craxi statista viene riabilitato, ma restano quelle macchie. Quanto pesano?
«Craxi aveva diritto ad essere riabilitato in vita.

Invece gli venne negato prima il diritto di difendersi in un giusto processo e poi quello di curarsi. Lui non scappò ma tentò semmai di sottrarsi al clima infame e di linciaggio quotidiano, anche fisico, cui era sottoposto, riparando nella più accogliente Tunisia».

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