È da sessantanni che cè la Fao. È da sessantanni che la Fao organizza i vertici. E nel frattempo la fame nel mondo non solo non è stata sconfitta, ma ci pende oggi sulla testa come una drammatica emergenza. E allora con tutto il rispetto dei delegati, dei lavori, delle proposte, delle conferenze e dei piani per il futuro, delle cene di gala e della doverosa ospitalità italiana, forse è venuto il momento di chiederci seriamente se questi vertici servono a qualcosa. Forse è venuto il momento di chiederci anche se la Fao serve a qualcosa. Oltre che, naturalmente, a mantenere schiere di burocrati.
Su un bilancio di 784 milioni di dollari quelli che l'organizzazione internazionale destina direttamente a sfamare gli affamati sono 90 milioni: meno del 12 per cento. Il resto sono studi, viaggi, spese di funzionamento. Per carità, magari è tutto importantissimo. Ma perché, allora, non è mai servito a nulla? Diciamolo seriamente, per il rispetto che dobbiamo ai bambini che muoiono di fame: dal 1948 a oggi, la Fao ha inciso sul problema dell'alimentazione come uno starnuto incide sull'inclinazione dell'asse terrestre. Che cosa ha ottenuto? Risultati pochini. In compenso numerosi meeting e tanti buffet. «Scusi delegato, ha visto la drammatica situazione del Bangladesh?». «Ma sicuro, e lei ha assaggiato quella tartina al caviale?».
Parlare di fame nel mondo tra brasati al barolo e aragosta in vinaigrette, dibattere di denutrizione con la pancia piena di risotto all'arancia e filetto d'oca, annunciare nuove carestie subito dopo aver addentato kiwi e foie gras: ma come si fa? Durante una delle ultime edizioni dei vertici, la delegazione del Kenya venne intercettata a fare shopping di scarpe e vestiti in via Condotti. La delegazione cinese, invece, si era stanziata all'Hotel Parco dei Principi. Il capo si era fatto riservare la stanza da 3500 euro a notte: trecento metri quadrati, salotto, cucina autonoma, stoviglie d'argento, arazzi pregiati, lampadari dorati, maxischermo Tv e grande bagno con vasca Jacuzzi. Film e idromassaggio, si capisce: lo esige la lotta alla fame nel mondo.
Gli unici che hanno tratto beneficio dall'organizzazione, in questi anni sono i suoi dipendenti. Non sono pochi: 3500. Di questi 1.600 sono dirigenti. Ma voi l'affidereste un incarico importante a una struttura che ha un dirigente ogni due dipendenti? Nemmeno l'esercito della via Pal contava così pochi soldati semplici. E dire che, a essere soldati semplici, non c'è molto da recriminare: un nuovo assunto alla Fao guadagna come minimo 61mila euro l'anno, una segretaria può arrivare a 73mila. E in più benefit di ogni genere, compresi i corsi di yoga, il tai-chi, la danza del ventre e l'aromaterapia, tecnica evidentemente molto utile per risolvere il problema dell'alimentazione planetaria.
«Ma che state a Fao?», si chiedono ormai in molti. Il direttore dell'organizzazione è in carica dal 1994. Anno dopo anno si ritrova ad ammettere «abbiamo fallito», «la fame nel mondo non si riduce», «non abbiamo scuse». Eppure resta lì, abbarbicato alla sua poltrona. Appena nominato aveva lanciato la parola d'ordine: meno dipendenti. E i dipendenti sono subito aumentati. Poi annunciò: basta funzionari negli uffici, voglio più gente sul campo. E infatti il 70 per cento dei dipendenti sta ancora a Roma. L'unico vero effetto delle sue riforme, raccontano, sono stati 500 meeting collettivi e 700 individuali organizzati dal medesimo Diouf per spiegare a tutti l'impatto del decentramento. Che, per altro, non c'è mai stato.
Adesso Diouf ha anticipato al Financial Times le sue richieste: vuole più soldi. D'accordo. Ma più soldi per fare che? Per finanziare gli stipendi di altre pasciute segretarie? Per alimentare i vizi dei suoi paciosi funzionari? Per permettere altri viaggi lussuosi alle delegazioni? Il problema della fame è troppo serio, troppo urgente, troppo vero per essere sepolto sotto un mare di parole, qualche carta e il solito via vai di camerieri che offrono aperitivi e foie gras. E allora, forse, il modo migliore per celebrare il grande appuntamento internazionale è chiedersi se ha ancora un senso.
Mario Giordano
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