Una famiglia ebrea piena di guai nell’America anni ’60 dei fratelli Coen

I fratelli registi americani presentano "A serious man", la loro ultima fatica

Una famiglia ebrea piena di guai nell’America anni ’60 dei fratelli Coen

Roma - In ogni conferenza stampa di ogni grosso Festival si fanno domande che fanno allibire. Di solito gli altri astanti, quelli meno confusi, lasciano correre. Ieri al Festival di Roma è stato chiesto ai fratelli Coen, di Minneapolis, Minn., di reagire al fatto che a Roma un professore universitario è «negazionista». I Coen, che concatenano volentieri le parole, come Qui, Quo e Qua, i nipoti di Paperino, hanno ribattuto che la questione li colpiva (sono ebrei), ma che la domanda non riguardava A Serious Man, il loro film presentato fuori concorso. E qui è esploso l’applauso. Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per la stampa...

Tornando alle cose serie del Serious Man, c’è da segnalare che lo distribuirà in gran numero di copie la Medusa il 4 dicembre, cioè come anti-panettone. Parole di Giampaolo Letta, che interviene alle conferenze stampa della casa che dirige solo quando vuol dar loro rilievo (era successo alla Mostra di Venezia con Baarìa).
L’impegno distributivo colpisce perché il film ha ben poco per attrarre un vasto pubblico: è ambientato in un sobborgo americano anonimo del 1967, come quello dove i Coen sono cresciuti; è interpretato da sconosciuti; racconta le disavventure di un uomo qualunque, un docente di fisica (Michael Stuhlbarg) tradito con un amico (Fred Melamed) dalla moglie (Sari Lennick), sfruttato dal fratello (Richard Kind) e deluso dai due figli adolescenti (Aaron Wolff e Jessica McManus).

Nessuno di loro è cretino, come sono i «gentili» nei film dei Coen. Ohibò! La spiegazione è che qui tutti sono ebrei: intelligenti, colti, problematici e brutti. Quest’ultimo dettaglio rompe certo la convenzione di bellezza per gli attori, anche quando i loro personaggi - come i genitori di Tornatore proprio in Baarìa - così belli non erano.

Oltre quarant’anni fa Il laureato di Mike Nichols fece grandi incassi pur avendo come protagonista l’insignificante - fisicamente - Dustin Hoffman. Poi fu Mel Brooks a imbastire storie assurde con Gene Wilder e a fare i soldi, soprattutto grazie allo strabismo di Marty Feldman. Forse la Medusa punta a fare il bis: ma oggi esistono italiani intelligenti e colti, pazienza se non sono brutti come i personaggi del film dei Coen, disposti a vederlo in massa?
Per rendere più inusuale il tutto, A Serious Man comincia con un episodio avulso dal film e ambientato in uno shtetl (villaggio ebraico) dalle parti di Leopoli, si direbbe un secolo fa. In originale vi si parla yiddish, una sorta di dialetto tedesco che accomunava gli ebrei dell’Europa orientale. E qui siamo appunto nello stile di Mel Brooks. Poi la scena si sposta in una di quelle villette tutte uguali, col prato davanti, Arcadie nei film e telefilm di oltre mezzo secolo fa, poi sentina di ogni orrore in epoca recente.

E qui i Coen sconfinano nelle situazioni care a Todd Solondz.

Resta un quesito. Nel Minnesota chi andrebbe a vedere un film ambientato nel 1967 su un docente cattolico di fisica all’Università di Milano, con problemi coniugali e familiari, raccontata dai fratelli Taviani?

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