"Non avevo speranze. Però viveva in me l’attesa. Persistevo nella fede irremovibile che l’epoca
dei miracoli crudeli
non era trascorsa".
Stanislaw Lem
Che cosa dovremmo ricordare? I libri «di fantascienza» di Stanislaw Lem - e la sua vita - ruotano intorno a questa domanda che ha in sé qualcosa di malinconico e allo stesso tempo di molto importante.
Lem nacque a Leopoli nel 1921, figlio di un laringoiatra ebreo, e studiò nelle eccellenti scuole di questa città che ancor oggi è fra le capitali culturali della Polonia. All’epoca lo era anche di più: il Politecnico di Leopoli faceva concorrenza a quello di Vienna, attirando numerosi studenti (tra cui alcuni futuri premi Nobel), e la buona presenza di ebrei dava al luogo un clima cosmopolita. Ritroviamo tutta la precoce curiosità di Stanislaw scienziato in erba e la sua prodigiosa memoria per i dettagli nel libro autobiografico in uscita oggi, Il castello alto (Bollati Boringhieri, pagg. 144, euro 15). Il titolo è ispirato all’edificio fortificato che dominava Leopoli e in cui bighellonavano gli alunni che marinavano la scuola, Lem compreso; lo stile del libro, invece, è quello denso e ondivago tipico dei libri di ricordi d’infanzia «mitteleuropei», come La lingua salvata di Canetti.
A metà degli anni ’30 Lem divenne «il ragazzo più intelligente della Polonia»: vinse le «Olimpiadi degli Studenti», cui partecipavano liceali da ogni parte della nazione. Avrebbe voluto iscriversi poi a Medicina, ma arrivò la guerra, e con essa la caccia agli ebrei e i pogrom, molto sanguinosi in quel periodo. Il padre di Stanislaw riuscì a procurarsi dei documenti falsi, e la famiglia potè restare con relativa sicurezza in una Leopoli che passò dapprima sotto il dominio russo e in seguito, nel ’41, sotto quello nazista. Tre anni dopo, i sovietici invasero di nuovo la città.
In un periodo così difficile Lem si mantenne come meccanico presso un garage di tedeschi. Aveva già allora una spiccata intelligenza scientifica che faceva coppia con un sornione ma vivo senso morale: inventò un sistema per cui i camion dell’invasore si «rompevano casualmente» cento chilometri dopo aver lasciato l’officina di riparazione. Non fu il suo unico atto di resistenza: approfittando dei suoi documenti falsi e del suo fittizio status di non ebreo, partecipò al trasporto segreto di cibo e medicinali per chi invece era rinchiuso nel ghetto. Riuscì anche a frequentare i corsi universitari organizzati in sedi di fortuna: era ancora impaziente di intraprendere la carriera medico-scientifica, ma alla fine decise di non dare gli ultimi esami prima della laurea, per evitare di essere arruolato come medico militare: «L’esercito si prese tutti i miei amici, non per un anno o due, ma per tutta la vita». Dopo la guerra, con i progetti esistenziali tutti da riorganizzare in un’Europa che non aveva una fisionomia precisa e in un Paese che stava infilandosi in un cupo regime totalitario sotto l’orbita sovietica, Lem si rese conto che avrebbe dovuto battere altre strade e si trasferì a Cracovia.
Fu allora che - mentre lavorava in un manicomio, esperienza narrata nel raggelante e meditativo romanzo L’ospedale dei dannati - scoprì la letteratura. In particolare quella che all’epoca riusciva più di altre a passare indenne dalla censura e a fornire (scarsamente) di che vivere: la fantascienza. Pubblicò racconti e anche poesie su alcuni settimanali, ma il primo romanzo apparve solo nel 1951: Il pianeta morto. Si era già in piena guerra fredda, e la competizione Usa-Urss per la conquista dello spazio ispirò Lem, che volle scrivere il libro solo dopo rigorose ricerche nella biblioteca del laboratorio chimico dove era assistente. Si cimentò pure nel «giallo», come in L’indagine del tenente Gregory, dove la logica investigativa si scontra con l’irrazionale, l’incalcolabile à la Dürrenmatt. I capolavori, i romanzi-filosofici sotto le mentite spoglie della fantascienza, dovevano ancora arrivare, sebbene questi primi libri siano ragguardevoli. Intanto si era sposato con la radiologa Barbara Lesniak. Poteva uno come Lem non scontrarsi comunque con la censura? E così accadde; tanto che solo all’inizio dei ’60 riprese a pubblicare con regolarità: ma adesso era un altro scrittore. Era il Lem di Solaris (1961).
Esiste un libro di fantascienza in grado di commuovere l’intelligenza più di questo? Tradotto in più di 30 lingue, ispiratore di uno splendido film di Tarkovskij e di un altro remake hollywoodiano di Steven Soderbergh con George Clooney, Solaris è una storia straniante, umanissima, circoscritta nel genere «fantascienza» solo per via della scenografia, una stazione orbitante intorno a un pianeta enigmatico, respingente. Che cosa non va su quell’astronave, tanto che dalla Terra inviano uno psicologo - Kelvin - a indagare? Gli scienziati terrestri che vi abitano per studiare l’«oceano vivente» di Solaris, con cui non riescono a comunicare nonostante tutti gli sforzi, sembrano negli ultimi tempi impazzire dai ricordi, come se la sacca del loro inconscio avesse continue falle. Eventi passati piacevoli o spiacevoli si presentano davanti ai loro occhi aperti, simili ad allucinazioni, e forse sono messaggi inviati, «suggeriti» loro dall’oceano pensante che ricopre Solaris. Nemmeno Kelvin ne rimane immune: sull’astronave ritrova davanti a sé la moglie, morta suicida anni prima. Dopo un iniziale rifiuto, non può negare l’esistenza - passata, presente, urtante, dolce e sensuale - di una persona con ricordi, emozioni proprie, sofferenze, una persona che lui ha conosciuto e amato e che torna a lui con una presenza silenziosa ma interrogante.
A volte la memoria, sembra dirci Lem, è come un boomerang che tu lanci tranquillo e sicuro di riprenderlo, ma che ritornando indietro ti colpisce in piena faccia. Comunicandoti senza che tu lo voglia tutte le cose non sistemate del tuo passato. Quei miracoli crudeli che ti fanno esistere.
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