È come se la inaugurassero una seconda volta. Dopo vent’anni di illuminato dispotismo, nel segno e nel regno di sua sovranità Riccardo Muti, ma soprattutto dopo la guerra civile e i feroci regolamenti di conti tra le fazioni interne, la Scala si riaffaccia sul grande scenario internazionale completamente restaurata, questa volta negli uomini e nei simboli. Praticamente, una dominazione straniera. O un’occupazione coloniale. Straniero il nuovo sovrintendente, Stephane Lissner. Straniero il nuovo direttore d’orchestra, il neppure trentenne Daniel Harding. E straniera pure l’opera, quell’Idomeneo del precocione straniero Amadeus Mozart.
Chissà se è soltanto un caso che in una serata così strana, dove si parla italiano con l’accento dell’ispettore Clouseau o di Ollio e Stanlio, si presenti puntuale il presidente Ciampi (per lui, vola dal loggione un accorato «ancora presidente»). Sicuramente è qui per ribadire il ruolo intoccabile della Scala nella politica culturale italiana. Ma non solo. Data la situazione, stavolta gli tocca anche la delicatissima missione di ghost-buster, cioè cacciare l’invadente fantasma che da un anno si aggira per il glorioso teatro, e che nella magica serata può giocare brutti scherzi. Il suo nome? Quasi un gioco di parole: il Mito di Muti.
Ha voglia l’apparato delle relazioni pubbliche di esibire tutti i vantaggi della svolta, del rinnovamento, della novità. Si parla di questa rivoluzionaria gestione e di questa rivoluzionaria stagione con fremiti di attesa e di curiosità. L’operazione viene presentata come se all’improvviso si fossero spalancate le finestre della Scala, lasciando entrare fresche ventate a scuotere le polveri dell’età. Sarà anche così, forse. Domani. Ma ci vorrà del tempo, perché la novità diventi tradizione. Troppo recente, troppo traumatico, troppo rumoroso il trapasso. E la vecchia guardia non fa mistero del disorientamento. Cesare Romiti parla di vera e propria nostalgia: «Non ho niente contro Harding, Harding è molto bravo, ma Muti è Muti». E lo stesso ministro Buttiglione non può esimersi da un auspicio: «Prima o poi, Muti dovrà tornare alla Scala...».
Sì, solo il tempo dirà se il teatro più famoso del mondo riuscirà a liberarsi del suo ingombrante fantasma. Adesso, a rivoluzione ancora in corso, sembra subito di cogliere un’atmosfera più anonima e più normale. Nessuna eccitazione, nessuna frenesia palpabile ad animare la limpida serata milanese. Quanto al risultato finale, atteso spasmodicamente come in un San Siro della lirica, ci sono dodici minuti di applausi. È qualcosa. Il giovane direttore d’orchestra non può certo competere in posture ieratiche con Muti. Non gli si può chiedere di essere istrione a ventinove anni. Bravissimo lui, allora, ad imboccare l’unica via di fuga possibile, per evitare il dramma dei paragoni: concentrare nella bacchetta tutta l’energia e tutto il furore dei suoi inimitabili ventinove anni. Con calma, i critici scodelleranno la ragionata sentenza. Intanto, è il regista con la sua scelta di costumi troppo moderni a finire ghigliottinato sul posto.
Sin qui, i fatti dentro la Scala. Poi c’è la seconda opera rappresentata: fuori, attorno. Quella che ogni anno, senza un titolo e senza un autore di grido, si recita senza copione e senza partiture. Senza la minima prova. Da questo punto di vista, non si segnalano stecche. Al momento giusto, tutti si fanno trovare pronti al proprio posto, entrando in scena con tempismo e sincronismi da standing ovation.
Oltre le lontane transenne, da dove neppure sparato potrebbe arrivare un uovo, le rappresentanze della contestazione annuale: stavolta, Alfa di Arese (replica), No Tav della Val di Susa, nonché lavoratori dello spettacolo. A seguire, gli altri personaggi del presepe laico: moltitudine di polizia e carabinieri, scorte lampeggianti, vigili urbani su di giri. Puntualissimi, persino un po’ stancotti per l’annuale routine, i Valentini e i Lucci di Striscia e delle Iene. Massiccia la presenza dell’alta finanza. Modica quantità di politica. Poca roba dal mondo del cinema e dello spettacolo. Presente il grande calcio con il milanista Seedorf. Del tutto assente, perché questa è gente che sa fiutare l’aria, la consorteria emergente del pianeta Veline&Fiction: per una sera, i famosi restano sull’isola. Anche solo per questo, viva la Scala.
Tre ore e dieci, non un lampo. Ma anche l’Idomeneo ha un inizio e una fine. Chiusura, prima delle cene e dei cenacoli di gala, all’insegna delle tradizionali pagelle in chiave tecnica. È duello aperto tra orfani di Muti e chi non lo reggeva più. Il fotografo Toscani è l’oltranzista del nuovo che irrompe, anzi che rompe: «Bello, fresco, speriamo che finalmente Milano torni ad essere una città moderna...». Sull’altra barricata, l’ala nostalgica guidata dal vicesindaco De Corato: «Lo confesso, sento la mancanza di Muti...».
Come dato di base, restano quei dodici minuti d’applausi. Non un successone travolgente, ma certo neppure una spietata bocciatura. Pochi o tanti, lasciano aperta una domanda: basteranno, come fragore, a mettere in fuga il fantasma della Scala?
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