«Fare l’editore? È un gioco di prestigio»

Stefano Mauri è un predestinato. Classe 1961, è a capo di un gruppo che vende 10 milioni di libri. Vogliamo dire una bella banalità? È uno cresciuto a pane e libri. Volete una banalità ancora più grossa? Con un padre come Luciano Mauri, scomparso da pochi giorni, che fu fondatore insieme con Mario Spagnol del primo gruppo editoriale indipendente e con un prozio come Valentino Bompiani e un nonno come Umberto che si inventò la più grossa società di distribuzione di stampa italiana, era difficile fare altro. È vero, niente gli impediva di diventare, che so, veterinario. Ma piuttosto che con innocui quadrupedi ha scelto di trattare animali ben più pericolosi: autori e intellettuali, librai e giornalisti.
Per spiegare cosa si intende qui per predestinato, sentite questa. Anno 1984, facoltà di Lettere, Stefano Mauri va a concordare la tesi di laurea con il professor Roberto Mainardi. Il quale, ignaro di tutto, gli dice: perché non mi fa una bella indagine sul consumo librario in Italia? Il professore, guarda caso, era anche un consulente di Luciano Mauri, committente della ricerca. Quella inchiesta, oltre che una tesi di laurea è poi diventata un volume, pubblicato dalla Hoepli nel 1987, Il libro in Italia, geografia, produzione consumo. All’epoca ebbe anche il suo quarto d’ora di celebrità. Il giovane Mauri aveva infatti scritto che la Corea pubblicava più titoli dell’Italia: 20.978 contro 12.029. «Il dato fece scalpore - racconta divertito - ma era interessante soprattutto perché “spia” di ciò che sarebbe diventata poi la Corea del Nord, in termini di innovazione e produttività. Insomma io sostenevo che il numero di libri pubblicati è indice e motore di sviluppo».
Il Predestinato, come avrete capito, è uno che sui libri ha qualcosa da dire. Da quando il Giornale ha pubblicato un’intervista a Gian Arturo Ferrari, megadirettore dell’area libri Mondadori, che dava bacchettate a tutti i pericolosi animali sopracitati (autori, librai, giornalisti culturali, intellettuali snob), a Stefano Mauri prude la lingua. Allora abbiamo deciso di fare un giochetto. Faremo a lui le stesse domande che abbiamo fatto a Ferrari (e continueremo anche con altri editori). Eccomi allora qui, nella nuova sede del neonato gruppo Gruppo editoriale Mauri Spagnol (Gems), che riunisce la galassia delle sue molte sigle (Longanesi, Guanda, Corbaccio, Salani, Garzanti), una elegante palazzina liberty in una elegante zona di Milano, a pochi passi dal verde di Parco Sempione.
Voi siete il terzo gruppo editoriale d’Italia. Quindi, secondo la vulgata corrente, come grandi editori appartenete alla categoria dei cattivi che puntano più a fare soldi che cultura. È vero?
«La distinzione è più sfumata. Come la distinzione tra editore commerciale e di proposta. Il primo pubblica libri non secondo il proprio interesse ma secondo il supposto interesse del pubblico. Sta su un piano diverso da quello del pubblico, come chi ti presenta una ragazza dicendo: “A me non piace ma per te va bene”».
Quindi voi vendete solo ragazze che vi piacciono?
«No, l’editore di proposta pubblica libri secondo il proprio gusto e sopravvive se i libri incontrano il favore del mercato. Presume che ci siano altre persone con il suo stesso gusto. Ma tutti in realtà fanno l’una e l’altra cosa, in diverse proporzioni».
Pubblicate libri per fare cultura o per fare soldi?
«Scopo dell’editoria è fare soldi, per finanziare il proprio progetto. È un gioco di prestigio: separare il lettore dal vile denaro lasciandolo più ricco di prima. E usare il denaro per remunerare il talento degli autori e fare ricerca».
Voi che editori siete?
«Noi siamo la somma di una serie di editori di proposta. La nostra forza sta nella diversità. Ci sono dieci diversi direttori editoriali con proprie passioni, interessi, fasce di pubblico».
Voi quindi fate cultura e non cercate il bestseller?
«La cultura la fanno gli autori, noi dobbiamo assicurare la maggior diffusione possibile ai libri che scegliamo».
Sì, però avete in catalogo Harry Potter, il campione dei bestseller. E anche nomi come Wilbur Smith e Sepúlveda. E Roald Dahl. E Nick Hornby, Roddy Doyle. E Tiziano Terzani...
«Beh, a volte ci riusciamo... il bestseller però non è mai annunciato. È questo il bello. E nel libro o nel suo lancio c’è sempre un elemento di originalità che ne determina il successo».
Vestire bene una patacca la fa diventare un bestseller?
«Chi è estraneo al mondo dell’editoria pensa che ci voglia il fiuto per il bestseller. Invece il fiuto è secondario. Un bestseller piace a molte persone, ergo molte persone l’avrebbero scelto. Il vero lavoro dell’editore è capire perché un dato libro piace ai lettori, acquistarlo velocemente, vestirlo graficamente, saperlo promuovere e interpretare, impegnarsi per convincere la stampa, i librai e poi i lettori. Noi dobbiamo fornire all’autore il primo nucleo di lettori. Poi è il mercato che decide».
Meglio pubblicare Dan Brown o scovare il nuovo Tomasi di Lampedusa?
«Zio Valentino partiva per l’America in nave e tornava con una valigia piena di libri da tradurre. Adesso gli editori non possono più scegliere con calma perché i diritti si comprano prima che i libri vengano pubblicati nel loro Paese. Un mio amico editore polacco può comprare e pubblicare Wilbur Smith o Dan Brown, perché lì il mercato si è aperto da poco. Da noi conta più la velocità del fiuto».
A proposito, lo pubblichereste Antonio Moresco?
«Non l’ho letto. Non so chi sia».
È vero che le cose più interessanti vengono dai piccoli editori?
«Non sempre. In Italia ci sono 4000 piccole case editrici. C’è chi ha talento, chi non ce l’ha. Chi ha fortuna, ma solo per una stagione. Bisogna vedere sui tempi lunghi, l’importante è fare i libri che ti piacciono e riuscire a sopravvivere. E quindi, o hai un catalogo o azzecchi il bestseller».
Quanto vale una recensione?
«Molto, anche se il grande successo dipende dal passaparola».
Cosa pensa dei critici letterari e dei giornalisti culturali?
«L’unico rimprovero devo farlo a chi scrive dei libri prima che siano usciti: fa un cattivo servizio agli autori e ai lettori». Frotte di aspiranti autori inviano manoscritti. Che cosa ne fate?
«Li leggiamo tutti, ma raramente c’è qualcosa di pubblicabile. Non sanno scrivere, non sanno costruire una storia e si fidano del parere dell’amico che ovviamente li incoraggia. Tra i casi di successo, nessuno viene da lì».
E da dove allora?
«Per esempio dai piccoli premi letterari, casomai di provincia, casomai per esordienti, che segnalano autori validi e svolgono un lavoro meritorio».
L’anno scorso eravate in finale allo Strega. Per due anni consecutivi avete vinto il Campiello. Un premio letterario fa vendere di più?
«I grandi premi sì. Se entri in finale o vinci è come ripubblicare il libro e quindi funzionano bene per le vendite».
Una ricerca dice che si pubblica un libro ogni trenta secondi. Non sono troppi?
«Ci sono quelli che sarebbe stato meglio non pubblicare. Ma si sa sempre dopo. E poi, come diceva il mio esempio della Corea, il numero di titoli pubblicati è sintomo di sviluppo. Curioso è invece un dato su chi compra i libri: in Italia la vendita è correlata più al reddito pro capite che al grado di istruzione».
La sera, meglio un libro o un programma tv?
«È un luogo comune che la tv ammazzi la lettura. La storia dimostra che ogni nuovo mezzo di comunicazione non uccide i precedenti. Anzi, se non ci fosse la tv, forse molti libri non avrebbero un pubblico. Il matematico impertinente è risalito in classifica dopo l’intervista a Raitre di Odifreddi e non si è più fermato. La tv è un mezzo straordinario per i libri».


Il libro che le ha dato una bella soddisfazione?
«Grazie ai grossi bestseller finanzio la mia attività ma in paradiso ci andrò anche per libri come il dizionario di romeno Vallardi. Solo mille copie l’anno, ma può cambiare la vita di un immigrato».

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