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La farsa delle false primarie

Mi spiace, professor Prodi, le primarie non sono una cosa seria, anzi serissima, come lei vuole affermare. Al più si tratta di una sceneggiata che è stata utile come escamotage per rappezzare la coalizione del centrosinistra che gli stessi protagonisti, dopo il dissidio con Francesco Rutelli, consideravano sull'orlo del baratro. Certo, ogni formazione politica ha il diritto di intraprendere le iniziative che ritiene opportune. Ma non si può scambiare una trovata vuota per un processo democratico che irrobustisce il sistema politico e galvanizza un'alleanza elettorale.
Tutti sanno che le primarie sono un meccanismo in uso negli Stati Uniti per scegliere effettivamente il candidato presidenziale di un partito e i candidati ad altre cariche istituzionali (congressmen, governatori, sindaci...). Lo strumento selettivo, affermatosi per le elezioni presidenziali nella seconda metà del Novecento, trae forza e legittimità da due presupposti storici e dall'assolvimento di una precisa funzione. I presupposti sono il bipartitismo e la piramide delle selezioni dei candidati a livello statale. La funzione consiste nella scelta effettiva del candidato selezionato da una pluralità di concorrenti, tutti con uguali opportunità. È facile notare che nel contesto del centrosinistra italiano immaginato dai prodiani i presupposti non esistono e la funzione selezionatrice è falsa.
Quali che siano gli arzigogoli degli esperti di partito, non si può prendere sul serio questa proposta di primarie poiché non servirà a scegliere alcun candidato e a decidere alcunché. È già noto quali saranno i partecipanti che si affiancheranno al designato Prodi: Bertinotti, Di Pietro, Pecoraro Scanio e forse Mastella. Ed è già stabilito che, indipendentemente dai risultati, il candidato sarà proprio colui che è entrato nella non-competizione con la qualifica di vincente, cioè il Professore. Dunque, che senso avranno le centinaia di migliaia o i milioni di voti di poveri cristi chiamati solo a «partecipare»? Che senso ha scoprire quel che già è noto, vale a dire che Bertinotti totalizzerà tra il 15-20% dei voti, Di Pietro tra il 5 e il 7%, e Mastella magari il 2-3% concentrato al Sud?
È tuttavia grave il fatto che questa macchina per il nulla è presentata come uno strumento democratico. Democrazia significa scegliere tra cose diverse e prendere decisioni effettive su temi che interessano la collettività. In questo caso ci si trova di fronte a una ratifica, a una specie di plebiscito mascherato da elezioni primarie. Ben altro sarebbe stato il caso se, invece dell'inutile giostra, il popolo della sinistra fosse stato chiamato a scegliere tra Prodi e Rutelli o tra Rutelli e D'Alema, l'un contro l'altro armati. Ma così non è.
Del resto la partecipazione senza decisione appartiene alla tradizione comunista. L'eredità del partito burocratico di massa governato dal «centralismo democratico» riposa proprio sul fatto che i militanti sono chiamati a partecipare per legittimare a posteriori le scelte effettuate in sede centrale dal vertice degli apparati. Oggi, con Prodi, si vuole riprodurre quel vecchio meccanismo della tradizione comunista. Con la differenza che dietro il Professore non c'è neppure quella forza organizzata che un tempo era la linfa vitale del Partito comunista.
I più avveduti dirigenti e osservatori della sinistra sanno che queste primarie sfiorano il ridicolo ma sono costretti a ingoiarle facendo finta di niente perché devono salvare la traballante candidatura dell'ultimo indipendente di sinistra. D'Alema, che la sa lunga, parlando della Federazione ha detto: «È inutile rimettere mano a formule organizzative che oggi non hanno più senso». Sebastiano Messina, ha ironicamente scritto su La Repubblica: «Finalmente Prodi ha messo le cose a posto. Il Partito Democratico è rinviato al 2006. La Federazione finisce nel congelatore, nell'Unione regna la divisione, però il Professore è in una botte di ferro...».


Purtroppo, però, se si abusa degli strumenti elettorali - che si tratti di primarie, di referendum, di parlamentarismo o di plebiscitarismi - è sempre la democrazia che ne soffre. Spero non all'ultimo respiro.
m.teodori@agora.it

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