Che resta il giorno dopo dello show di Gaspare Spatuzza a Torino? La sgradevole sensazione che si sia stato appunto uno spettacolo. Di quart’ordine. Una farsa penosa allestita non già da impresari furfanti per spillare soldi agli allocchi ma da un sistema giudiziario alle corde.
Quello cui abbiamo assistito, ridotto all’osso è questo. Un tagliagole è stato chiamato in aula per fargli pronunciare davanti alle tv di tutto il mondo la magica parolina - «mafia» - riferita al premier italiano e a un suo collaboratore, il senatore Marcello Dell’Utri. È stato l’unico intento della sceneggiata torinese. Spatuzza non ha detto nulla che non fosse già trapelato dai giornali ammanicati con i pm. Si è limitato a ripetere quello che aveva confidato nell’intimità a diversi procuratori della penisola. Con la differenza che stavolta c’erano i giornalisti italiani e stranieri, microfoni e tv. Una spettacolarizzazione ad arte, senza nessuna esigenza istruttoria. Solo l’obiettivo di creare la gogna mediatica delle due persone prese di mira.
Agli organizzatori è andata male. L’avanspettacolo è stato un fiasco. Si è voluta mettere troppa carne sul fuoco e si sono scottati i cuochi. Ora è chiaro a tutti che Spatuzza non sa niente. Quello che sa, lo ha sentito dire da un tizio (il boss Graviano) che non conferma e che se pure lo facesse dovrà provarlo. I magistrati che avrebbero dovuto cercare riscontri non hanno fatto nulla. Al corrente da mesi delle spifferate, sono rimasti al palo come all’inizio. E anche ieri a Torino si sono ben guardati da scavare più a fondo. Né conferme, né smentite. Zero al cubo. Solo nebbia dietro la quale i registi sperano possa aleggiare il sospetto il più a lungo possibile.
Quello che ad oggi risulta è questo. Sedici anni fa (1993), Spatuzza - un manovale della mafia con 40 omicidi sulle spalle - incontrò al Caffè Doney di Via Veneto il suo datore di lavoro, il capocosca Graviano. Costui - a detta del killer - gli disse soddisfatto: «Abbiamo ottenuto quello che volevamo grazie alla serietà delle persone che avevano portato avanti la storia...». Chi sono costoro? chiese Spatuzza. «Berlusconi», rispose il boss. «Quello di Canale 5?». «Sì e anche quel nostro compaesano (Dell’Utri, ndr). Abbiamo il Paese in mano». Tutto qui. Da mesi, ci rimpalliamo questa sibillina confidenza spatuzzesca. Da altrettanto tempo, la politica è ferma e tiene il fiato sospeso.
Ci si può chiedere dove voglia arrivare il «pentito». Io mi domando piuttosto a quale gioco giochino le toghe. Perché a me cittadino viene dato in pasto un racconto generico e di seconda mano che coinvolge il più significativo politico del Paese? Quali indagini sono state fatte per sapere se c’è del vero o quanto ce ne sia? Perché devo essere disturbato e reso inquieto con sospetti velenosi senz’ombra di prova? I giudici hanno l’obbligo professionale e morale di non propalare voci senza riscontri. Se lo fanno è perché giocano la carta politica della delegittimazione del capo del governo. E io ho il diritto di diffidare della loro serietà e imparzialità.
Anni fa (1989), al giudice Giovanni Falcone capitò un fatto identico. Un delinquente pentito - cosiddetto «collaboratore di giustizia» -, Giuseppe Pellegriti, disse di avere saputo da un boss, Nitto Santapaola, che l’andreottiano Salvo Lima era implicato nell’omicidio di due avversari politici, Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Sul relata refero, Falcone indagò in silenzio, senza fare trapelare nulla. Ripeto: nel più assoluto riserbo. Alla fine, scoprì che era una trappola per infangare Andreotti e incriminò Pellegriti per calunnia. Fece cioè l’opposto delle toghe che oggi maneggiano Spatuzza. Prima di mettere alla gogna il politico romano, quel giudice volle vederci chiaro. Evitò di spargere veleni, salvò l’onore dell’incolpevole senza sottoporlo a ingiusti patimenti e presentò il conto allo Spatuzza di turno. Evidentemente, nei vent’anni trascorsi da allora, lo stampo dei Falcone è finito al macero.
Sono diversi i segnali che lo show torinese - il quale nelle intenzioni doveva consacrare le accuse - si sia invece risolto in una colossale zappata sui piedi. Il primo a mostrarsi seccato per un’imprevista folla di giornalisti e curiosi - un po’ sì, ma il troppo stroppia - è stato il pm del processo Dell’Utri (quello che appunto si celebra a Torino), Nino Gatto. «Si sta enfatizzando troppo la deposizione di Spatuzza... certo chiama in causa il premier ma...». Anche durante l'udienza, Gatto è apparso incerto e nervoso. Ha interrogato il mafioso come fosse un orso ammaestrato. Gli ha fatto ripetere il già noto senza azzardare terreni inesplorati. I presenti, stampa estera in testa, hanno lasciato l’Aula delusi con un pugno di mosche in mano.
Un altro che ha preso clamorosamente le distanze è Piero Grasso, il procuratore nazionale Antimafia. Grasso a Torino non c’era perché presentava un suo libro a Ferrara. Ma proprio lui - che aveva ascoltato per primo le confidenze di Spatuzza ammettendolo al programma protezione (la patente del collaboratore vip) - ha commentato l’udienza senza entusiasmo. «Le parole del pentito - ha detto - andranno corroborate e verificate». Un’ovvietà che tace però sul perché la verifica non si stata fatta prima di renderle di pubbliche. «La seduta in pompa magna non è stata un’imprudente esagerazione?», gli è stato chiesto. «L’urgenza del processo in corso ha determinato questa accelerazione», ha tagliato corto senza spiegare quale fosse l’urgenza, né l’utilità della sceneggiata per ovviarla. Un imbarazzo evidente che si taglia a fette.
Tra i delusi, Gianfranco Fini. Nei giorni scorsi aveva definito le rivelazioni spatuzzesche una «bomba atomica».
In conclusione: un palpabile buco nell’acqua e un gran bella lezione.
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