Il fascino intramontabile dell'ultimo grande seduttore

Con il viso da bravo ragazzo e il sorrisino da ribelle era irresistibile in ogni ruolo. Perfino in camicia a quadri...

Il fascino intramontabile dell'ultimo grande seduttore
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Massì, diciamo la verità: ci sarebbe piaciuto, una volta tanto, alzare la testa dal computer, qui in redazione, e trovare seduto a cavalcioni sulla scrivania di fronte alla nostra quel tipo coi capelli biondi scarmigliati nonostante la riga, le gambe ciondolanti, le maniche arrotolate della camicia non proprio immacolata, il colletto sbottonato con noncuranza e l'aria di uno che, mentre solleva la cornetta del telefono, è pronto a ribaltare le sorti del mondo, senza fare un plissé ma senza nemmeno tirarsela troppo... Ma tant'è, nessuno si aspetta di fare dimettere il Presidente degli Stati Uniti, e nessuno si aspetta nemmeno Robert Redford che, in Tutti gli uomini del presidente, nei panni di Bob Woodward ha sicuramente contribuito a costruire il mito e lo stile del "giornalista da leggenda" nel cinema americano e, di conseguenza, nell'immaginario popolare e collettivo del mondo intero.

Di questo immaginario, Robert Redford è stato parte integrante e meravigliosa per sessant'anni, attraversandolo in lungo e in largo, e modificandolo a seconda dei personaggi da lui impersonati, perché il suo carisma riusciva a imprimersi su qualunque ruolo, perfino il più lontano dagli standard del fascino maschile e, soprattutto, è riuscito a esprimersi ininterrottamente, come se la mutevolezza degli anni, delle mode e dei gusti del pubblico non facessero altro che assecondarlo, seguendolo nelle sue metamorfosi. Perfino quelle meno maschie, perfino quelle così sdolcinate che un altro, al posto suo, avrebbe sfiorato il ridicolo: chi avrebbe avuto il coraggio di diventare l'Uomo che sussurrava ai cavalli? Invece eccolo lì, che addestra e doma come un ranchero, anche perché in effetti lo è stato, nelle sue proprietà a Santa Fe e nello Utah, dove ormai si era ritirato, e dove è morto ieri, nel sonno, a 89 anni portati straordinariamente. E ora, tutti questi Robert Redford si compongono davanti ai nostri occhi come un lungo film hollywoodiano: con il cappello da cowboy e i baffoni in Butch Cassidy, con la coppola maliziosa nella Stangata insieme all'amico Paul Newman, trasandato e con il barbone (ma lo sguardo era sempre il suo) in Corvo rosso non avrai il mio scalpo!, il ricco irresistibile con il dolcevita bianco di Come eravamo con Barbra Streisand, con il cappottino blu e la sciarpa precisina che abbraccia una splendida Jane Fonda in a Piedi nudi nel parco, in completo bianco anni Venti nel Grande Gatsby, con la giacca di pelle in Spy Game e il bavero alzato in I tre giorni del condor, in tenuta da avventuriero mentre lava sensualissimamente i capelli a Meryl Streep in La mia Africa, e poi con tutte quelle camicie a quadrettoni o di jeans, che insomma, non starebbero bene a nessuno, ma proprio a nessuno, tranne che a lui... Lui che era stato sposato per oltre venticinque anni, dal 1958 al 1985, con la stessa donna, Lola Van Wagenen, che aveva perso due dei suoi quattro figli (di cui uno pochi mesi dopo la nascita) e poi si era risposato soltanto molto tempo dopo, nel 2009, con Sibylle Szaggars, una artista tedesca, con la quale di fatto si era autoesiliato da Hollywood, in linea con quell'anima da ribelle che nascondeva sotto l'aria da bravo ragazzo biondo e dalla faccia seria, e che però lasciava trasparire nel sorriso appena accennato, un marchio di fabbrica.

E infine, lui pochi anni fa, nel 2017, di nuovo con una delle "sue" donne, Jane Fonda ("Non riesco a smettere di piangere" ha detto ieri): una coppia, anziana, in Le nostre anime di notte, lei ancora divina, lui con una voce bassa e roca che incarnava così delicatamente il volgere della vita e la sua bellezza, che non ci abbandona mai, anche quando finisce. Un po' come il fascino dell'ultimo, grande divo.

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