Fassino si piega a D’Alema: fuori dal governo

Un fassiniano: «Piero faticherà a convincere la base che non ha fatto un passo indietro»

Laura Cesaretti

da Roma

Proprio mentre Piero Fassino (faccia assai tirata dopo sette ore sette chiuso al Botteghino con Massimo D’Alema e poi con la segreteria del partito) sta annunciando che ha deciso di restar fuori dal governo, scattano le inquietanti note di «Profondo rosso».
È solo la suoneria del cellulare di un giornalista, ma qualcuno rabbrividisce istintivamente, e a Vannino Chiti scappa un sorrisetto nervoso. D’Alema invece resta impassibile, ma passa un bigliettino a Nicola Latorre che ridacchia. Il momento, come sottolinea la colonna sonora del sanguinoso Dario Argento, è solenne. «Ho scelto di restare alla guida dei Ds per impegnare tutte le mie energie nella costruzione di un grande Ulivo», che deve vedere la luce già nella primavera del 2007, in occasione di «un’importante tornata di elezioni amministrative», annuncia Fassino. Al partito, spiega, serve «una guida politica salda e certezza di direzione», mentre sarà D’Alema a guidare una «forte, autorevole squadra di governo» della Quercia. D’Alema lo ringrazia, con toni e termini che ricordano quelli usati da Prodi il giorno in cui incassò (con sollievo) la rinuncia dalemiana a correre per la presidenza della Camera: «La scelta di Piero di dedicarsi a tempo pieno alla guida del nostro partito e alla costruzione di un nuovo partito non era obbligata. È una scelta generosa e importante».
Il segretario dei ds scioglie così la riserva sullo scontro che da settimane tormenta la Quercia e che, dopo la obbligata rinuncia dalemiana al Quirinale, è arrivato al dunque. Perché a questo punto (sfumata la Camera, sfumato il Colle) D’Alema al governo ci deve andare per forza, in mancanza di più alte alternative istituzionali, e vuole anche diventarne il baricentro politico: «Capotavola è dove mi siedo io», è il motto che i suoi amano ricordare. Una presenza certo ingombrante per Romano Prodi, ma in fondo il premier tuttora in pectore si è rassegnato al male minore, dopo aver operato per tagliare al presidente ds la strada di Montecitorio e della presidenza della Repubblica.
Restava il problema Fassino, che della Quercia è il segretario e dunque il leader: in due a capotavola non si può stare, pensa D’Alema, uno dei due è di troppo. Ne hanno discusso ininterrottamente per giorni, e ancora ieri mattina Fassino non doveva essere così convinto di escludersi da un esecutivo che vedrà la presenza di quasi tutti i leader, se è vero come racconta un membro della segreteria ds che D’Alema avrebbe minacciato: «Allora resto fuori io», un terzo passo indietro che stavolta avrebbe causato un terremoto nella Quercia. Anche Fassino però aveva qualche sassolino da togliersi: se i giornali hanno scritto in questi giorni che dal côté dalemiano trapelavano malumori e rimostranze contro la gestione troppo «cedevole» della partita istituzionale da parte del segretario, «qualcuno quelle cose deve pur averle dette», e sarebbe ora - come dice in modo colorito un fassiniano - che «D’Alema mettesse la museruola ai suoi», perché l’unico risultato che così si ottiene è quello di «indebolire tutto il partito», sminuendo la «vittoria storica» di aver portato un ds al Quirinale e «facendo un favore a Rutelli».
Fatto sta che la riunione della segreteria è slittata mentre i due si confrontavano, e che alla fine Fassino si è presentato all’appuntamento annunciando che il dado era tratto. Il dibattito è durato a lungo, anche perché alcuni fassiniani hanno continuato a ribadire la loro convinzione che la «soluzione migliore» fosse il suo ingresso al governo. «Sarà difficile spiegare ai nostri elettori che il segretario del principale partito è l’unico che resta fuori», ha detto Mimmo Lucà, «anche perché è proprio dal governo che si determineranno le condizioni per il futuro partito democratico». Ma «ne andava dell’unità del partito», ragiona un membro di segreteria. E comunque «Fassino incassa il fatto di essere a questo punto il leader indiscusso dei ds, in una situazione pacificata», il congresso che D’Alema voleva anticipare slitterà «con molta calma» alla primavera del 2007, e lui sarà «il candidato naturale alla guida del cantiere ulivista, visto che è l’unico con le mani libere». I suoi ipotizzano per lui la «presidenza del coordinamento» del futuro partito democratico e un ruolo di leadership che lo candiderebbe naturalmente alla guida del centrosinistra e di un futuro governo, se il processo andasse in porto.

Ma bisognerà vedere se Rutelli, Prodi e lo stesso D’Alema (per non parlare di Veltroni) saranno d’accordo, visto che ognuno di loro pensa più o meno la stessa cosa. La pace ds è intanto siglata, e ora la rappresaglia si concentrerà sulla Margherita (per l’intanto sui vicepremier e sul numero di ministeri, 9 ne chiede la Quercia).

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