da Ramallah
Il ragazzotto s’aggiusta il passamontagna, stringe la bandoliera di pallottole che gli ricama petto e divisa. Peso inutile per chi invece della mitragliatrice di Rambo impugna un semplice kalashnikov, ma vuoi mettere la figura. «Noi - ti sussurra sorridendo - quelli di Hamas li facciamo a pezzi». Saranno in trenta, e hanno anche loro una piccola vittoria da festeggiare. A segnalarla bastano le nere volute di fumo dalle finestre del terzo piano del Parlamento. Un tempo erano gli uffici dei deputati di Hamas, adesso sono il simbolo della vendetta. I ragazzotti in passamontagna nero s’accontentano anche di quello. Sono i tigrotti di Rashid Abu Shabak, il fantomatico capo della Sicurezza preventiva scomparso da Gaza e riemerso a Ramallah dopo aver abbandonato al loro destino i propri uomini. A consolidare il loro senso di vittoria almeno qui nella Fatahland cisgiordana contribuiscono, oltre agli arresti in massa dei capi di Hamas e l’uccisione di un militante avversario in quel di Nablus, le decisioni del presidente Mahmoud Abbas.
Un decreto già sancisce la sostituzione del primo ministro di Hamas con Salam Fayyad, il ministro palestinese più amato dagli americani. La promozione dell’ex funzionario della Banca mondiale, attuale responsabile delle Finanze, punta ovviamente a conquistare l’appoggio di Washington in un momento cruciale della storia palestinese. Prima o dopo il presidente dovrà, però, fare i conti con le spudorate avance di Hamas deciso, dopo la conquista di Gaza, a non farsi isolare dal resto del mondo. «La nomina di Fayyad alla testa del governo di emergenza è un colpo di Stato - ripete da Gaza il portavoce fondamentalista Abu Zuhri -, chiediamo al presidente di ritirare la propria decisione per preservare l’integrità palestinese».
La volontà, o l’illusione, di seppellire il passato e ricominciare da capo viene espressa anche dal deposto premier Ismail Haniyeh. Per farlo approfitta del consueto sermone del venerdì e chiede ai suoi di mettere fine all’anarchia e riavviare un processo di riconciliazione nazionale. Le immagini dei militanti mascherati, pronti a calpestare le immagini infrante del defunto presidente Arafat, non aiutano. L’ebbrezza delle folle intente a razziare la residenza del presidente Abbas e quella del consigliere per la Sicurezza nazionale Mohammad Dahlan, non incoraggiano. Ma il deposto premier, secondo alcune voci, ha un asso nella manica.
Dopo un giovedì scandito dalla voglia di esecuzioni sommarie e vendette, il venerdì santo di Hamas sembra ispirato dal desiderio di perdono. Il portavoce Abu Obeideh si premura di far sapere a giornalisti e televisioni che i dieci capi di Fatah catturati nella notte di giovedì, tra cui un deputato, il capo della sicurezza nazionale e della Guardia presidenziale, rischiano al massimo l’umiliazione. Se tutto va bene e non ci saranno accuse troppo pesanti verranno rilasciati dopo qualche interrogatorio. Un bel gruppetto di ex dirigenti dell’organizzazione del presidente si preparerebbe invece a denunciare la corruzione del movimento a Gaza e a ringraziare pubblicamente il movimento fondamentalista per l’indispensabile ed esemplare operazione di pulizia.
La guerra, costata novanta morti e qualche centinaio di feriti solo negli ultimi cinque giorni, potrebbe insomma venir ridimensionata a una banale incomprensione tra fratelli. Così almeno spera Hamas consapevole che altrimenti dovrà fare i conti con l’isolamento internazionale, la diffidenza del mondo arabo e le minacce americane e israeliane. «Dal mio punto di vista - ricorda Haniyeh - la strada per riformulare le nostre relazioni su solide basi nazionaliste è ampia e aperta». Quell’accenno al nazionalismo serve a spazzare via tutte le congetture sulla nascita di uno Stato islamico e a riassicurare non solo Abbas, ma il resto del mondo.
Certo delle sue capacità di recupero, il movimento fondamentalista annuncia anche un piano per il controllo del valico di Rafah con l’Egitto.
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