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Ma per favore non ricominciamo la lagna del Sud

I nuovi terroni viaggiano su un aereo con un computer portatile. Lunedì all’aeroporto di Bari c’erano sei voli quasi in contemporanea con quello che mi avrebbe riportato a Milano. Sei partenze: Linate, Malpensa, Bergamo, Fiumicino, Londra, Torino. C’erano ragazzi e ragazze con la chiavetta internet agganciata ai loro pc. Eravamo tutti terroni di accento e di anima, globalizzati nel lavoro e nel futuro. Il meridionale che emigra è un’immagine che ha scolorito le valigie di cartone e i pomodori piantati nelle vasche da bagno. Di quei ragazzi non ce ne è uno che la prenda male. Si riempie una borsa per appendere i vestiti in un armadio nuovo. Si sognano le orecchiette della mamma, il mare, il sole, il caffè con bicchiere d’acqua gratis in allegato, poi però si parte per prendere se stessi. Provate a chiedere di fare cambio e rimarrete sorpresi. Provate a vedere se si sentono sfigati perché costretti a lasciare i luoghi dell’infanzia per sentirsi un adulto più felice e resterete choccati. Perché ci sentiamo come un tedesco che va in Inghilterra o un americano che si sposta da Detroit a New York.
Settecentomila emigrati dal Sud al Nord spaventano chi s’accascia sul luogo comune della questione meridionale. Qui non ce n’è più una, o almeno non c’è quella che politici che parlano a gettone credono ci sia. Dobbiamo sentirci in colpa perché duecento persone al giorno decidono di lasciare un cielo stupendo per sperare di avere un cielo proprio? E poi: sicuri che sia un male la nuova emigrazione? Questi dati si riferiscono a un periodo che va tra la fine degli anni Novanta e la metà dei Duemila, cioè quello del boom tecnologico. Se tanti terroni si sono trasferiti al Nord vuol dire che c’è un sacco di gente che sa fare e sa capire.
La questione vera è che c’è un Sud che si muove, che cresce, che va, che si sposta, che produce, che guarda a se stesso come pezzo di mondo e non come mondo a pezzi. Cerca il mercato e lo trova. Sceglie il mondo e lo prende. Settecentomila emigrati sono la conferma che c’è speranza, anzi certezza. C’è dignità, fierezza, decoro: uno studia e poi cerca di lavorare dove capita, dove trova, dove riceve stimoli. Non ci si pone più il problema di tornare, perché si torna comunque: il Sud non si dimentica, resta dentro, ma può essere lasciato per qualcosa per cui ne valga la pena. Un posto di lavoro o una nuova famiglia, una laurea o il sogno di diventare qualcosa e non necessariamente qualcuno. È un orgoglio terrone che sparge di accenti e di vocali aperte gli uffici, che inonda le multinazionali, che cerca spazio non come rivendicazione sociale, ma come soddisfazione umana senza latitudine. Dicono che questo Sud emigri perché l’altra metà è rimasta ferma, abbandonata a se stessa, derubata di fortuna e di soldi. È un ritornello stonato, adesso. Una lagna fastidiosa, una nenia cantilenante. Il Sud riceve milioni a valanghe: li ha presi dallo Stato e ora li prende dall’Unione Europea. Li ottiene, li promette, li stanzia, li destina, li usa a volte bene, spesso male. Ci sono montagne di euro pronti per Puglia, Basilicata, Molise, Campania, Sicilia, Sardegna, Calabria che non vengono spesi perché sono troppi e le amministrazioni locali non sanno come gestirli. Allora non c’è qualcuno che ruba al Sud, ma è il Sud che a volte ruba a se stesso. S’è rubato il passato, si ruba il presente e sembra che voglia rubarsi il futuro. È la mentalità dell’assistenzialismo a ogni costo a distruggere i meridionali. Perché al Sud il lavoro c’è, non quanto al Nord, ma c’è. Perché chiunque racconti l’emigrazione sudista con il tono del piagnisteo alimenta la distruzione dello stesso Sud. Passa l’equazione: non c’è speranza e quindi è inutile combattere. Invece quei settecentomila che in dieci anni se ne sono andati dicono il contrario: chi si sposta rende onore al suo essere meridionale dicendo che ha voglia di fare senza aspettare e senza piangere, raccontando al Nord che non tutti sono come quelli che preferiscono il lavoro nero a una busta paga vera, ma magari un po’ più scarica. Viaggiare per lavoro non significa tradire. Si prende una valigia, si parte, si fatica. Si può tornare in ogni momento.

Solo che le orecchiette di mamma non bastano per tutta la vita.

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