Il femminismo sul lavoro fa male alla salute

Lo studio arriva dalla Svezia, un Paese dove l’uguaglianza tra i sessi è realtà da decenni. I ricercatori: «Ma attenzione alla discriminazione»

Il femminismo sul lavoro fa male alla salute

Londra - Il test è svedese. Negli uffici dove regnano le pari opportunità si lavora peggio e ci si ammala di più. Le donne sono stressate per le responsabilità da capo. Molti uomini soffrono la leadership femminile e cadono in depressione. L’equazione è questa: il femminismo crea stress e frustrazione. Chissà cosa ne penserebbero Mary Wollstonecraft, Simone de Beauvoir, o ancora Betty Friedan. Giusto per citare tre capisaldi del femminismo di lotta, votato alla liberazione della donna dall’oppressiva gerarchizzazione di stampo maschilista. Chissà come reagirebbero nello scoprire che proprio da uno dei Paesi che meglio ha compreso - e adottato tramite una rigorosa applicazione - il loro pensiero, giunge oggi la critica più insidiosa. Perché ancor prima che un giudizio negativo, è dalla Svezia che proviene l’ultima implacabile confutazione al femminismo, che rischia di ridimensionarne - in maniera insolita quanto bizzarra - la portata emancipatoria e le conquiste.

Uno schiaffo amarissimo per tutti coloro che hanno sempre creduto che la costruzione di una «società migliore» passasse inderogabilmente attraverso la lotta per l’affermazione della parità dei sessi. Una società migliore, certamente, più civile e democratica anche, ma con un alto prezzo da pagare in termini di salute pubblica. Il femminismo fa ammalare, insomma, rende la popolazione più debole e cagionevole. Indistintamente, sia uomini che donne, vittime anch’esse dell’egualitarismo sessuale. A sostenere la tesi - decisamente all’insegna del politicamente scorretto - è un gruppo di ricercatori svedesi che ha raccolto e incrociato i dati provenienti dagli uffici delle 290 municipalità del Paese. Per valutare i differenti gradi di «uguaglianza» tra i sessi, in ciascuno di essi gli studiosi si sono affidati a nove indicatori. Sia negli enti pubblici che nelle aziende private hanno misurato la percentuale di donne inserite nei quadri dirigenziali, comparato gli stipendi, calcolato le aspettativa di vita comune per comune, il tasso di disabilità, ma soprattutto il numero di giorni di assenza dal lavoro per malattia. E i risultati emersi - pubblicati dalla rivista Social Science and Medicine - hanno messo in risalto gli imprevedibili effetti collaterali dell’equità uomo-donna, ovvero il suo stretto legame con la malattia e la disabilità. Dove più le condizioni socio-economiche contrastano le disparità, maggiori sono i malanni e le indisposizioni. Soprattutto nei casi di parità salariale questo insospettabile vincolo pare rafforzarsi, con la conseguente riduzione dell’aspettativa di vita. Come si trattasse di un abbraccio maligno tra uomo e donna.

Se pare dimostrato (almeno statisticamente) il rapporto di causa-effetto, qualche perplessità in più emerge a proposito delle possibili ragioni dietro questo fenomeno. Secondo alcuni la salute dei maschi potrebbe somatizzare l’egualitarismo in quanto percepirebbe, in maniera inconscia, la perdita della antica e privilegiata supremazia. Nel caso delle donne, viceversa, le cause sarebbero da ricercare nell’esposizione a maggiori rischi, o ad un sovraccarico di stress e fatica, per giustificare - a se stesse e ai colleghi maschi - il nuovo status paritario. Oppure - azzardano altri - la nuova caducità dei sessi si spiegherebbe proprio con il non ancora avvenuto compimento dell’uguaglianza sessuale. Gli acciacchi e le malattie sarebbero proprio l’espressione di questo sforzo lontano dal trovare la sua ultima realizzazione.

Per ora, in attesa di un’improbabile interpretazione univoca dello studio svedese, restano le controverse conclusioni. Attenzione: il femminismo fa male alla salute, come titola l’Independent. Una sintesi ad effetto, che spaventa chi ancora si batte per garantire alle donne pari diritti.

«Il pericolo è che questi dati vengano interpretati come un avvertimento per non rimuovere le divisioni che ancora imperversano nel mondo del lavoro - denuncia Anastasia de Waal, del think-tank Civitas - Perché è necessario che la società moderna vada in direzione opposta, ovvero completi lo sforzo: dare pari diritti e responsabilità agli uomini come alle donne».

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