La penna di Longhi più la voce di Sgarbi: si potrebbe immaginare così la misura del critico darte ideale qualora ce ne fossero capaci di scrivere come il grande storico e di parlare come lodierno protagonista di tante battaglie culturali combattute a partire proprio dallo schermo televisivo. Ma Vittorio Sgarbi forse non sarebbe pienamente daccordo con un simile identikit: visto che oggi sembra prediligere la novità della lingua parlata rispetto alle virtù di una critica basata sulla mediazione letteraria. La sua lezione darte fatta a voce sul teleschermo ha conquistato il pubblico: e in ogni caso rappresenta secondo lui un rimedio sicuro alla insopportabile astrusità espressiva di certa critica moderna. In pillole il segreto di Sgarbi sarebbe questo: quando appare sullo schermo egli tende ad attirare, oltre lo sguardo, anche lascolto di chi lo osserva grazie a un eloquio che è di per sé uno spettacolo («laudio in tv comincia con me»). Oltre alla tecnica comunicativa, questa «messa in scena della parola» corrisponde però anche alla sensibilità dellautore che preferisce sempre consumare a voce perfino i giudizi più elaborati. Sgarbi infatti scrive come parla.
Per lui la parola autentica è solo quella sparata a caldo. La retorica della «parola viva», dice, somiglia a quella dei poeti e degli artisti. Non a caso egli fa trascrivere il suo parlato prima di mandarlo alle stampe. E cè da scommettere che anche il suo ultimo divertente libro è stato scritto - anzi: «parlato» - proprio così (Vedere le parole. La scrittura d'arte da Vasari a Longhi, Bompiani). In questo breve saggio-conferenza lautore si dilunga in paragoni spiritosi attorno al tema della «prosa di conversazione» (genere letterario da lui prediletto e in qualche modo scoperto) che gli ha consentito di popolarizzare i valori della esperienza estetica senza scadere nel più volgare relativismo («quel principio idiota secondo cui è bello ciò che piace»). Fedele alla regola di un discorso che vuol essere per tutti, la conversazione del nostro critico popolare si avventura in una sintetica descrizione dei modi in cui si è formata ed espressa nel tempo la lingua e la cultura degli storici dellarte, a partire dal Rinascimento con Giorgio Vasari e Marco Boschini (il primo in lingua toscana, il secondo in versi dialettali veneziani) per arrivare gradualmente alla scuola di grandi conoscitori come Morelli, Berenson, Longhi e Zeri, al cui metodo anche Sgarbi si è formato misurandosi su quella ricercata equivalenza di immagine e parola che - soprattutto per Longhi - era il vero scopo della critica. Naturalmente Sgarbi qui non pecca di modestia. E stabilisce una genealogia di illustri litiganti in tema di linguaggio («Berenson litiga con Longhi che litiga con Zeri che litiga con me») valutando la sua novità comunicativa come una specie di valore aggiunto rispetto ai maestri precedenti, in quanto sarebbero rimasti legati al palo della scrittura scritta. «Nessun critico parla come scrive», ribadisce lautore, rivendicando meriti.
Sottolineando il valore della parola poetica - anima di ogni autentica critica darte - il conversare di Sgarbi ci ricorda, tra tanti riferimenti artistici e letterari, che la cultura artistica non nasce mai per improvvisazione. E conclude: «Comprendere larte richiede molta esperienza, che però non è teorizzabile». Né per iscritto e nemmeno con le parole.
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