Lawrence Ferlinghetti, uno tra i fondatori della poesia beat americana, riceve oggi a Lerici il premio «Lerici-Pea per l'opera poetica», mentre ieri ha ritirato un altro riconoscimento, «Lerici Città di Pace e di Poesia», attribuito l'anno scorso al Nobel irlandese Seamus Heaney. Unoccasione rara di chiacchierare con un poeta sopravvissuto al suo mito. Bastava sentire il vigore con cui ha letto, ieri mattina, due poesie dalla sua ultima raccolta (A lume spento, Interlinea, 2006): una voce ferma e stentorea che raccontava il dramma dell'11 settembre con versi in cui la tragedia si mescolava a unironia forse non dimentica delle sue origini: Ferlinghetti è bresciano per parte di padre, ma la madre era sefardita. E proprio dall'11 settembre e dalla politica parte la chiacchierata.
Lei non vede un pericolo nel terrorismo arabo, nei vari fondamentalismi?
«Io di sicuro non la vedo come il presidente Bush. Ha fatto una guerra contro l'Irak, ma non sapeva neppure dove stesse l'Irak sulla cartina geografica».
Sulle questioni di politica internazionale, le opinioni del poeta di A Coney island of my mind (la sua raccolta poetica più celebre: più di un milione di copie vendute!) sono chiarissime. Ma Ferlinghetti, 87 anni benissimo portati, è una miniera di ricordi e persone conosciuti.
Lei è noto come il poeta di San Francisco, ma è nato a New York. Quando si trasferì là, e per che ragioni?
«Un amico mi disse: va allOvest, man, e io ci sono andato. Avevo trent'anni. Non mi pento, ma resto un uomo dell'Est, un viso pallido. All'Est potrei tornare in qualunque momento».
In ogni caso, lei sta a North Beach, che è il quartiere italiano di San Francisco.
«Ah sì, ci si parla una lingua a parte, che è il norbicése. Per dire cortile non dicono backyard, come in inglese, ma becchiardo».
Ed è vero che nel suo quartiere ha fatto mettere nomi di poeti alle vie?
«Sì. C'è una Kerouac road, una Mark Twain alley...».
Che rapporto ha con gli italiani d'America?
«Ottimo. Quando decisi di fare l'editore, il mio primo socio era il figlio di Carlo Tresca, l'anarchico ucciso misteriosamente a New York nel 43. Qualche anno fa ho scritto una poesia che si chiama Old italians die. Non solo perché vedo i funerali che si celebrano nella chiesa dei santi Pietro e Paolo, ma anche perché si vanno perdendo le radici italiane degli emigrati. Gli italiani d'America di oggi sono ormai a tutti gli effetti degli americani».
Lei ha tradotto Pasolini, le Poesie romane. Perché lui e non un altro poeta, magari maggiore?
«Perché secondo me Pasolini è il più importante poeta italiano del dopoguerra. E non parlo soltanto del poeta ma anche dellintellettuale, del saggista. Il partito comunista del suo tempo non lo accettò, ma Pasolini criticava il capitalismo usando gli strumenti di Marx. Ora, io credo che l'attacco al capitalismo portato da Marx sia attuale ancora ai nostri giorni».
E legge ancora poesia italiana?
«A San Francisco, ricevo cumuli di manoscritti da poeti italiani inediti. Credo che non ci sia mai stato periodo in cui l'Italia abbia avuto tanti poeti: e molti sono buoni. Li pubblica il mio amico Angelo Bertoli, che dirige City Lights Italia, a Firenze».
Ma perché un poeta, giovane ma già affermato com'era lei, decide di fare l'editore e di pubblicare suoi coetanei, come per esempio Allen Ginsberg?
«Avevo messo qualche soldo da parte e, intanto, aprii questa libreria a San Francisco, appunto City lights, come il film di Chaplin (Luci della ribalta, ndr). L'idea era quella di vendere soprattutto tascabili. Dopo, è venuto naturale pubblicare anche testi che mi piacessero. Niente di strano».
Niente di strano per quegli anni, forse.
«È vero. Grosso modo nel 55, a San Francisco, prende avvio un vero rinascimento poetico. È il tempo in cui conosco e pubblico Ginsberg, poi Ken Patchen, Kenneth Rexroth, Dianne Di Prima, infiniti altri. A tutti noi sembrava che la poesia americana stesse invecchiando, si fosse fatta troppo accademica. Ho invece sempre pensato che la poesia debba essere popolare e per questo iniziammo a leggerla in pubblico».
Una specie di ritorno alle origini, alla tradizione orale, da Omero in poi.
«Se vuole. Ma noi avevamo anche la nuova musica, il jazz, e del jazz soprattutto l'improvvisazione. La nostra novità era una poesia fondata appunto sull'improvvisazione e il ritmo».
La poesia beat non ha padri?
«A me piacevano molto i grandi francesi: Apollinaire su tutti, ma ovviamente anche Baudelaire e Rimbaud. Ho letto e amato molto Williams, Pound, Eliot».
La sua poesia è densa di citazioni.
«No, ho solo rubato molto».
In una poesia della sua ultima raccolta ha rubato anche dall'Italia, vero?
«Mah, in qualche modo. Si chiama Non ci sono ancora le lucciole e si rifà a quel famoso articolo di Pasolini in cui si lamenta che, con la sparizione delle lucciole, inizia unera spaventosa».
Lei non ne vede più di lucciole?
«Non tante, se devo dire».
Lei non dà l'impressione di incarnare il tipo dell'americano ottimista. «
«Io penso che un poeta non debba guardare soltanto al proprio ombelico: ci sono tante cose più interessanti. Per questo, io mi guardo attorno, giro per il mondo».
E scrive poesia, dipinge, interpreta performance. Lei sa dove trovare la bellezza.
«Guardi che i poeti non sanno dell'amore, della bellezza o di chissà che altro più di uno che faccia un mestiere qualsiasi. Trovare l'amore, la bellezza e quindi anche le lucciole è una questione di fortuna, sa».
Intanto, l'anno scorso, lei è tornato a Brescia, per visitare casa sua.
«Sì, è vero. Sono tornato a Chiari, in provincia di Brescia, e ho trovato la casa in cui abitava mio padre che, ventenne, nel 1892 emigrò in America. Entro nel portone con il mio cameraman e un inquilino, sbirciandoci dalla finestra, ci urla parassiti. Un altro aveva chiamato i carabinieri, che ci portano al comando.
Lei ha scritto, in una delle sue prime raccolte, che stava aspettando il ritorno dello stupore. La poesia ha cinquant'anni: nel frattempo, ha trovato lo stupore?
«No, io non l'ho visto».
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