FERRANTE Speriamo che non sia femmina

Una madre opprimente e una donna travolta da un amore ossessivo dominano la scena in «La figlia oscura»

Elena Ferrante è una scrittrice piuttosto nota, e lo è indirettamente anche a coloro che non leggono romanzi ma vanno al cinema perché dai suoi racconti sono stati tratti due film di successo, L’amore molesto e I giorni dell’abbandono. Ma è anche una scrittrice molto misteriosa, visto che cela gelosamente la sua identità dietro uno pseudonimo. Per appagare la nostra fame di biografia siamo dunque costretti a servirci dei suoi personaggi e in particolare delle figure femminili, cedendo alla tentazione di trattarle alla stregua di autoritratti. Tentazione che ritorna con la protagonista del suo ultimo romanzo, Leda, una docente universitaria di letteratura inglese separatasi dal marito e da qualche settimana anche dalle figlie ormai adulte, che hanno raggiunto il padre in Canada.
Rimasta sola in casa, priva di intralci familiari, la professoressa può tornare a vivere una sorta di bohème studentesca. Rinuncia alla donna delle pulizie, limita i pasti ad uno al giorno, per giunta in trattoria, dorme il pomeriggio e la notte prepara un corso su Olivia, un’opera scritta da un’amica di Virginia Woolf e ad essa dedicata in cui per la prima volta si sfiora il tema dell’amore di una donna per un’altra donna. Anche il romanzo della Ferrante consente una lettura omosessuale, ma il tema che occupa il proscenio de La figlia oscura (edizioni e/o, pagg. 141, euro 14,50) è più ampio ed articolato, e per accorgersene basta seguirne la peripezia.
Con il sopraggiungere dell’estate, Leda potrebbe approfittare della nuova condizione di donna libera. Potrebbe cioè continuare a percorrere un cammino di affrancamento iniziato con la fuga da Napoli a Firenze, proseguito con la carriera universitaria ed efferatamente concluso con l’abbandono delle figlie, lasciate al padre per tre anni durante i quali si è dedicata esclusivamente alla ricerca. Potrebbe: ma a sorpresa si concede invece un nostos suicida, un ritorno volontario nelle fauci della bestia dalla quale era riuscita a fuggire.
La bestia, fuor di metafora, è lo spauracchio di una femminilità pesante e ricattatoria, imposta dalla madre. Percepiamo che la personalità di Leda, la sua professione e l’intero suo carattere, sono l’esito dell’aut-aut materno. È come se la madre le avesse detto: c’è solo un tipo di femminilità, ed è la mia. Arcaica, matriarcale e grondante fecondità. Se rinunci a fronteggiarmi e a sconfiggermi su questo campo, sarai costretta a rinunciare a qualsiasi altra forma di femminilità e diventerai una donna gelida. È perché vuole gettare la spugna, questa spugna, che Leda prenderà in affitto una casa al mare. In Puglia.
In Puglia, direte voi; e che cosa c’entra con la madre? C’entra. Tra la Puglia e la madre c’è la stessa relazione che per Genet intrattengono le rose e gli ergastolani: apparentemente incongrua, in realtà intima. Tornare a Napoli sarebbe equivalso a porgere le mani alle manette, mentre passando l’estate in Puglia si può sperare di ingannare se stessi e gli altri. Lo stesso trucco viene replicato una volta scaricate le valigie. La spiaggia non è deserta: c’è un giovane, educato bagnino che studia legge sotto l’ombrellone; c’è un anziano e goffo dongiovanni in vena di galanterie. Si riveleranno ben presto delle prede sostitutive, selezionate in quanto inerti. Leda propone al giovane bagnino di salire da lei solo perché si attende un diniego, e si intrattiene a lungo con l’attempato corteggiatore scommettendo che alla fine l’uomo si tirerà indietro.
Mentre la coppia di spuntati spasimanti svolge il suo ruolo di paravento, Leda si lascia travolgere dall’ossessione per una giovane e bella madre, Nina, rimanendo altresì ipnotizzata dall’adiposo, ricco e protervo clan di napoletani che la circonda e la protegge. Una famiglia spaventosa e dunque rassicurante, perché riassume tutto quanto è terrestre, mondano, quindi nauseabondo. Attorno alla famiglia di Nina si affollano il primitivo, la violenza, le passioni, la vita biologica: in altre parole ciò che si oppone allo spirito. E poiché Leda separa la carne dallo spirito, è condannata ad assistere, orripilata, all’emergere dei grossi grumi prodotti dall’insolubilità di mente e corpo. Il più disgustoso dei quali è la bambola dal ventre gonfio di fango che la donna ruba alla figlia di Nina, proiettando su un feticcio inorganico le sue fisime di isterica non redenta dalla maternità.
Relativamente facile da decifrare, a patto di non lasciarsi stordire dall’efficace ma martellante simbolismo, La figlia oscura è la storia di una liberazione fallita a causa dello spettro della madre e Leda un Amleto al femminile.

Quanto al regno del quale si è indecisi se accettare o no la corona, è una sessualità sdrammatizzata e un femminino un po’ meno steatopigio. A pensarci bene, gran parte del dilemma era intuibile già nel nome della protagonista, attratto da Zeus, cioè dal divino-animalesco, come da Tindaro, cioè dall’umano.

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