Ferrari, il cattivo maestro dell’«Unità» che dà lezioni sugli impresentabili neri

Esponente storico di Democrazia proletaria condannato per «violenza politica»

Gian Marco Chiocci

da Roma

A proposito di «impresentabili neri» nel centrodestra, l’Unità ha spedito in edicola un libercolo di 160 pagine, 5 euro e novanta oltre al prezzo del quotidiano, dal titolo illuminante: Da Salò ad Arcore - la mappa della destra eversiva. Nel pamphlet allegato al foglio diretto da Antonio Padellaro si raccontano fatti e misfatti «dei diversi gruppi della diaspora neofascista in sonno» che «ora fanno tra loro a gara per partecipare, con candidature e liste apparentate, alla crociata elettorale di Silvio Berlusconi». È una mappatura storica delle sigle dell’estrema destra, dai Fasci di azione rivoluzionaria al Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese, da Ordine nuovo a Terza Posizione, dai Nar di «Giusva» Fioravanti a Forza Nuova per finire alla nipote del Duce e al suo partito, Alternativa sociale.
Bene. Chi ha scelto l’Unità per raccontare della pericolosità degli «impresentabili neri» che dal manganello son passati al doppiopetto? Un personaggio che troppo presentabile non è. Il nome è noto alle cronache e ai casellari giudiziari, non ai lettori de l’Unità: Saverio Ferrari. Negli anni Settanta era uno dei responsabili dei Caf (Comitati antifascisti,) poi portavoce di Democrazia Proletaria, passato in Rifondazione comunista ed ora presidente di un battagliero «osservatorio democratico». Tanti anni dopo la Cassazione ha ratificato la sua condanna definitiva a tre anni e due mesi di reclusione per un episodio gravissimo di violenza politica. Per capire di cosa si tratta occorre tornare agli anni di piombo, e ripercorrere ciò che accadde a margine dell’omicidio di Sergio Ramelli, giovanissimo missino colpito mortalmente alla testa da più chiavi inglesi mulinate dagli assassini di Avanguardia operaia. Fra atroci sofferenze, alternate a brevi lampi di lucidità, il ragazzo muore il 29 aprile 1975. A margine dell’indagine sul delitto (giudici istruttori Guido Salvini e Maurizio Grigo) fece capolino l’episodio della scoperta del covo di via Bligny a Milano nel quale Avanguardia operaia custodiva un archivio logistico «con migliaia di schede, fotografie con ingrandimenti, con studio di abitudini e indicazioni di targhe, descrizioni di bar e locali pubblici nonché di sedi politiche con tanto di piantina degli interni, agendine, tessere di partito, documenti di identità (...) provento di numerose aggressioni anche con conseguenze molto gravi». Nell’abbaino del covo la polizia rinvenne anche le foto del funerale di Ramelli, con annesse freccette e nomi sui volti dei missini presenti alle esequie. «Nel reperto 864 - scrive Luca Telese nel libro Cuori Neri - c’è la foto di due ragazzi, Nelli e Tarantelli, imputati per falsa testimonianza nel processo per l’omicidio di uno studente di sinistra, Brasili. L’annotazione che li riguarda è perentoria: Da sprangare!».
Esattamente un anno dopo alcuni attivisti di «AvOp» presero di mira un bar milanese in Largo Porto di Classe. Lanciarono molotov e presero a sprangate chiunque provasse a scappare da quell’inferno di fuoco solo perché il locale era considerato «fascista»: Fabrizio Ghilardi subì due operazioni, entrò in coma, passò giorni interi in un polmone d’acciaio; a Giovanni Maida, che quel giorno aveva appena 16 anni, spaccarono la mandibola, fratturarono la spalla, oggi è un invalido permanente; Bruno Carpi ebbe un doppio sfondamento della calotta cranica. Nessuno dei tre aveva mai fatto politica.
Quand’era un leader dei Caf l’autore del libro allegato all’Unità ebbe problemi proprio per quest’ultimo episodio, e per le schedature d’opposta fazione. Nel processo per l’omicidio Ramelli celebrato il 16 marzo 1987 (presidente Antonio Cusumano) confluirono anche i due procedimenti penali che, va ribadito, col pestaggio mortale non erano direttamente collegati.

La Corte d’Assise emise sentenza di condanna a undici anni nei confronti di Ferrari, ridotta poi a cinque anni e sei mesi in appello, rispedita indietro dalla Cassazione per un nuovo processo che s’è concluso con una riduzione ulteriore a tre anni e due mesi. Impresentabili neri? Da che pulpito arriva la predica a mezzo stampa...
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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