«La fiaba di Precarientola finisce bene»

Da ieri la favola di Precarientola conosce un nuovo sviluppo, grazie a una clamorosa sentenza di Cassazione, mentre nelle sale continua a tenere banco l’interessante commedia sociale di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti, dedicata ai lavoratori dei call center e, più in generale, a quella consistente fetta di gioventù italiana, che non gode i vantaggi del lavoro fisso. E intanto che i film sull’instabilità lavorativa costituiscono un vero e proprio genere (dopo I giorni e le nuvole di Silvio Soldini e Cover boy di Carmine Amoroso, per citare i più recenti, altre pellicole sul tema risultano in preparazione), quasi un filone sul punto di soppiantare quello giovanil-licealistico, Paolo Virzì, autore siculo-labronico a inconfutabile vocazione postmarxiana (in campagna elettorale si è speso per il Pd), dice la sua.
Caro Paolo Virzì, ha saputo che i lavoratori di call center avrebbero diritto a un contratto di lavoro subordinato, se utilizzano le strutture aziendali di chi li sfrutta, un tanto all’ora?
«Davvero? Mi sembra una bella novità. So che c’era anche un provvedimento dell’ex ministro Damiani in proposito. Forse però per far valere la sentenza ora chi lavora nei call center dovrebbe fare una class action».
Che idea ha del mondo, che ruota intorno al precariato, visto che per girare Tutta la vita davanti si è documentato non poco?
«Si tratta di lavori quasi sempre al limite della truffa. Purtroppo, il call center è un luogo di lavoro, dove non viene descritta la tipologia del lavoro stesso. Per quel che ho visto e sentito io, l’obiettivo è quello di sfruttare il portafoglio clienti del giovane neoassunto».
L’idea le è venuta dalla testimonianza d’una precaria sarda, vero?
«Sono rimasto letteralmente folgorato dalla lettura di Il mondo deve sapere, un libro molto ben documentato di Michela Murgia, una “callerina” sarda, che nella sua denuncia racconta, dal di dentro, le dinamiche pazzesche dei call center. Luoghi di lavoro infernali. Basta leggersi i blog dei ragazzi che operano in certe strutture».
Comunque, sul grande schermo lei descrive l’inferno dei precari in modo sorridente, non lagnoso.


«Come sempre, quando si racconta il lavoro, si racconta la vita. Ed io ho cercato proprio di mascherare da fiaba “nera” questa crudele narrazione realistica. Volendo dare, però, al tempo stesso, l’impressione che stessimo fiabeggiando».

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