Da una parte Sergio Marchionne, alle prese con una nuova sfida alla Fiom dopo la decisione del tribunale di reintegrare in fabbrica, a Melfi, i tre operai licenziati (la replica del Lingotto: «Vi paghiamo lo stipendio, ma restate pure a casa»); dall’altro Massimo Mucchetti, editorialista del Corriere, da tempo spina nel fianco dell’amministratore delegato di Fiat. In una lunga intervista concessa al quotidiano, Marchionne fa il punto sui piani del gruppo, i rapporti con i sindacati, l’articolo 18, l’assist a Alberto Bombassei nella gara per il vertice di Confindustria, i risultati del governo Monti, l’America di Barack Obama, il futuro dell’asse con Chrysler e i conti.
Al di là delle novità contenute nell’intervista (il compito delle fabbriche italiane della Fiat sarà quello di rifornire il mercato Usa, «ma se non accadesse - avverte Marchionne - dovremmo ritirarci da due dei cinque siti in attività»), dietro le due pagine ci sarebbe comunque altro: l’aver messo per la prima volta, faccia a faccia, Mucchetti e Marchionne per una sorta di chiarimento tombale. L’intervista, infatti, ha avuto un prologo un mesetto fa quando, ospiti di Marchionne per una colazione, sono stati lo stesso editorialista e il direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli. Un incontro organizzato per mettere i due contendenti allo stesso tavolo, dal quale è uscita l’idea dell’intervista a tutto campo. Pace fatta, dunque, almeno per ora. Ed equilibri ristabiliti tra il Lingotto e la sua partecipata Rcs, che alcuni commenti velenosi sulle stategie di Marchionne avevano spesso messo in imbarazzo.
Nel servizio in un solo momento Marchionne sembra rispondere stizzito («ma come si permette?!, la liquidità serve perché è finito il tempo dei convertendi»), quando gli viene chiesto conto del cash (20 miliardi) che Fiat «tiene fermo in un Paese che avuto la Parmalat».
Le altre risposte sono pacate e riguardano i piani futuri e una serie di precisazioni sui conti. Marchionne, dunque, si apre e fa chiarezza anche su Fabbrica Italia, spiegando che Chrysler non riavvierà i siti dismessi e, quindi, che gli stabilimenti italiani della Fiat hanno l’opportunità di esportare negli Usa. «Questo penso per l’Italia - puntualizza - ed è per questo che trovo insopportabilmente razzista dipingermi come un uomo senza patria». L’ad si dice anche «molto ottimista» per l’America nel 2012, malgrado l’elevato debito pubblico del Paese, e rileva come il governo Monti «in pochissimo tempo abbia dato al mondo l’idea di uno Stato che sta svoltando», anche se «non siamo in condizioni floride». Marchionne sottolinea, quasi per giustificare alcune sue uscite poco felici, di «non aver mai parlato male dell’Italia», ma che ha «solo riconosciuto quello che non va, perché era serio farlo nell’interesse della Fiat, gruppo multinazionale e del mio Paese». E sempre sollecitato sul tema, osserva che «conviene investire in Italia man mano che le riforme del governo Monti vanno avanti», mentre sull’articolo 18 commenta: «Ce l’abbiamo solo noi. Meglio assicurare le stesse tutele ai lavoratori in uscita in modi diversi, analoghi a quelli in uso altrove».
Obbligato il passaggio sulla Fiom. É dei giorni scorsi la sentenza della Corte d’appello di Potenza che ha reintegrato al lavoro i tre operai licenziati a Melfi, Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli. L’ad, in proposito, dice di temere che il leader Fiom, Maurizio Landini, «stia facendo una battaglia politica», mentre Susanna Camusso (Cgil) «forse parla troppo di Fiat e Marchionne sui media, e troppo poco con noi». Da qui il «rimpianto» di due ex: Gianni Rinaldini (Fiom) e Guglielmo Epifani (Cgil).
E Bombassei? «Sulla possibilità - risponde Marchionne - che la sua scelta, con l’annuncio del possibile nostro rientro in Confindustria, trasformi la gara sul dopo Marcegaglia in un referendum su Fiat, non ci avevo proprio pensato. E non mi interessa molto».
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