Ma la fiction quasi mai sa raccontare la boxe

Cinema e narrativa di rado evitano i luoghi comuni quando salgono sul ring

Sugar Ray Robinson, il più grande pugile della storia della boxe, suonava il pianoforte. Ed era un piacere ascoltarlo. Quando tirava cazzotti era altrettanto piacevole vederlo: aveva un ritmo musicale. Ma non tutti possono essere Robinson, soprattutto provando entrambe le arti: suonare il piano e tirar pugni. Come il protagonista del racconto. Letto il finale, meglio insistere con il pianoforte. La boxe non è una favola, ma nei racconti talvolta lo diventa. Sylvester Stallone si è inventato Rocky, però ha dovuto faticare per diventarlo, benché si trattasse solo di cinema. Raccontare la boxe può provocare due sensazioni a chi legge. Esplicazione troppo elementare, quasi a dirsi: questo non sa nemmeno cosa sia il pugilato, la tecnica, le fatiche, i movimenti, le sofferenze. Oppure: piacere del pathos pur attraverso luoghi comuni che non mancano mai, situazioni immaginate più che vissute. L’equilibrio è difficile. Ma è anche vero che un racconto di boxe è spesso più verosimile di un film.
L’autore di Boxe regala la sensazione di aver tirato pugni in palestra. Insistere sul fisico così minuto, su quel collo sottile che quasi mai permette di fare molta strada sul ring, è segnale di una conoscenza dei particolari che contano. Anche se ci sono stati campioni dal fisico striminzito e dalla potenza devastante: più secche sono le braccia, più saettanti i colpi. Quindi l’aspetto tecnico del racconto è veritiero, non sempre verosimile. La descrizione delle sensazioni rasenta l’idea da cinema.
La realtà sta in quel colpo finale che manda a buon fine la storia del protagonista. È il colpo della domenica.

Lo hanno provato tutti, campioni e cenerentoli. Lo hanno preso o lo hanno dato. Qualcuno si è giocato un mondiale nel giro di poche decine di secondi, qualcuno lo ha perduto all’ultimo secondo. È la variabile più prevedibile della boxe. Anche in una favola.

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