«Fidel non sbaglia mai, guarirà entro il 2 dicembre»

Il regista, ex parà di Salò, considera il líder maximo un mito e continua ad avere fede assoluta nella «revolución»

Stefano Zurlo

da Milano

Ma come sta Fidel? «Il peggio è passato», assicura Piero Vivarelli. «Ho chiesto notizie direttamente a Cuba e ho avuto risposte tranquillizzanti. Poi, senza fare inutili dietrologie, mi sono sintonizzato con Telesur, sul canale 916 di Sky, e sono stato ritranquillizzato da Chavez in persona. Il leader venezuelano assicura che nel giro di qualche settimana si rimetterà. E poi mi fido di Fidel che non sbaglia mai: ha fatto slittare i festeggiamenti dei prossimi giorni al 2 dicembre. Vuol dire che per quella data sarà in perfetta forma».
Vivarelli ha una biografia che si faticherebbe a far entrare in un romanzo. Regista, ha diretto Totò e Celentano, ha scritto la celeberrima canzone «24mila baci», è stato amico intimo di Luigi Tenco. Ma soprattutto ha una certa familiarità con Fidel e il fratello Raul e si vanta di essere uno dei pochissimi italiani iscritti al Partito comunista cubano. Anzi, già che c’era, tre anni fa l’hanno nominato paracadutista ad honorem dell’esercito cubano. Un bel traguardo per uno che sessanta e passa anni fa era a Salò fra i «nuotatori paracadutisti» della Decima Mas.
Ma l’inesauribile Vivarelli fa sul serio: «Dalla rivoluzione non si torna indietro, il popolo non lo tollererebbe. All’Avana tutti stanno con Castro. Fidel ha dato al suo popolo la libertà, quella libertà che qua da noi non c’è». Dice proprio così Vivarelli e nemmeno l’arma dell’ironia riesce a scongelare il suo pensiero: «Crede che scherzi? Fidel ha dato la sanità migliore del mondo alla sua gente, ha dato un’istruzione completa fino all’università a milioni di connazionali, ha dato finalmente la libertà sessuale». Addirittura? Vivarelli quasi si commuove: «Io stesso ho partecipato come giurato a un concorso di bellezza per trans. Se un trans si sente donna viene considerata tale anche senza l’intervento. Poi, se si opera, i costi sono a carico dello Stato. Questa è la libertà e per questo io dodici anni fa ho chiesto l’iscrizione al partito».
Per sei mesi gli occhiuti funzionari del regime hanno raccolto informazioni, poi l’hanno trionfalmente fatto entrare nell’élite rivoluzionaria: «Siamo solo quattrocentomila su dieci, undici milioni di cubani, io pago la mia quota mensile di dieci dollari e aggiungo che in Italia voto i Comunisti italiani perché sono stati i soli a spedire un telegramma di auguri a Castro senza se e senza ma. Cuba è un’utopia, ma un’utopia almeno in parte realizzata».
Inutile provare a mettere in discussione il mito. Vivarelli è il custode più ortodosso del comunismo più longevo. I dissidenti? «Sono pochi». Gli esuli? «In Texas hanno riempito due prigioni con i delinquenti cubani espatriati fra altisonanti proclami». La povertà? «C’è, ma a Cuba non esiste la miseria». Una sfilza di obiezioni buttate giù brandendo il ritratto monocromo del leader malato: «Castro è un genio».

Niente paura, il sogno andrà avanti: «I giornali hanno scritto che si preparara una successione di tipo dinastico, con il passaggio del potere al fratello Raul. Non è vero, Raul fa la sua parte, così come gli altri ministri emergenti. Vedrà, Cuba rimarrà sempre una spina nel fianco del capitalismo. Ahimè, Fidel non è immortale, ma la revolución sì. E non tramonterà».

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