Leon ha 21 anni, occhi chiarissimi e una sfilza di cortei alle spalle: il primo contro la guerra in Afghanistan a 13 anni, quando se ne stava nelle retrovie a urlare cori intonati da altri. Ora è lui che tiene in mano il megafono e che precede lo striscione di testa delle manifestazioni di piazza a Milano. «Sì ma il movimento è di tutti gli studenti» continua a ripetere. Non vuole essere considerato il leader. Di fatto lo è.
Insieme ad altri due o tre volti noti di questo autunno caldo degli atenei, non ci impiega più di cinque minuti a incanalare una folla di ragazzi in un corteo. Senza ordini. Con grinta, questo sì. Leon ha un cognome importante, che forse, in certe circostanze, gli pesa un po. Suo padre è il noto gallerista Jean Blanchard. Ma a lui tutto importa fuorché apparire come il classico «figlio di papà» con la erre moscia, che però ha. Gira con una giacca a vento blu, sempre la stessa, strappata e sgualcita, divisa immancabile in ogni protesta, in ogni occupazione.
Leon si sente parte della piazza e della strada. Ascolta musica hip hop. «È la colonna sonora del meticciato metropolitano - spiega - e delle nostre mobilitazioni». Non è semplice mettere daccordo centinaia di persone, decidere cosa fare se la polizia blocca loccupazione dei binari, come laltro giorno alla stazione Cadorna, o se nasce qualche scontro. Oppure andare a parlare in tv, come è successo laltra sera ad Annozero.
«Lorganizzazione - precisa lui senza prendersi meriti - fa parte del nostro sentire comune. Per lavorare bisogna mettere la propria testa in connessione con gli altri. In campo cè unintelligenza collettiva e con il nostro sapere sfanghiamo la burocrazia e ci inventiamo la vita».
E così farà anche lui, a un passo dalla discussione della tesi. «Mi laureo a novembre in Scienze politiche - dice - sempre se non avremo bloccato tutto in università». La sua tesi parla del «rapporto tra lo strutturalismo francese e il movimento operaio degli anni Settanta». E, neanche a dirlo, la dedica sarà riservata ai movimenti sociali e studenteschi. Quelli che lui porta nel cuore, quelli che in queste settimane lo fanno dormire sei ore a notte e lo sommergono di telefonate: «Dove ci troviamo?», «Cosa scriviamo sullo striscione?», «Cè un giornalista che ti cerca, cosa gli dico?».
La vera scuola di Leon, oltre al classico Manzoni e alluniversità Statale, è il centro sociale Cantiere. Lì ha imparato a organizzare la piazza, a coordinare la protesta. E guai a dire che gli studenti ricalcano le orme del Sessantotto: «Non rinneghiamo la Pantera e quegli anni. Ma noi viviamo il nostro tempo».
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