Il film che trasforma i brigatisti in eroi

I familiari delle vittime attaccano "La prima linea" che racconta la vita del terrorista Sergio Segio. Il figlio del giudice Galli: "Scamarcio sembra un fascinoso bandito che va a liberare la sua bella"

Il film che trasforma i brigatisti in eroi

Milano - Il cipiglio degli anni Settanta. Le pistole. Il sangue. Tanto sangue. Il sangue che fa scorrere ancora le lacrime di chi è sopravvissuto: una generazione di vedove e di orfani. La prima linea di Renato De Maria, dal 20 novembre nei cinema, racconta un pezzo della nostra storia più feroce: la stagione del terrorismo, delle croci, dei funerali solenni. E inevitabilmente divide. Le ferite sono ancora aperte, alle vittime per decenni è stata tolta anche la voce, il dolore è stato ed è per molti un vicino assiduo e implacabile.

Nel film, però balzano in primo piano le azioni cruente, le sparatorie, le fughe rocambolesche. Ecco la morte di Emilio Alessandrini, a Milano, in viale Umbria, il 29 gennaio 1979, con tanto di fumogeno scagliato per coprire la fuga del commando. E poi ancora, ecco quel terribile 3 gennaio 1982: a Rovigo Sergio Segio guida il blitz per liberare la fidanzata Susanna Ronconi. Un pensionato, Angelo Furlan, muore.

Nella pellicola di De Maria questi episodi sono visti con gli occhi di due belli del cinema italiano: Segio è Riccardo Scamarcio, la Ronconi è Giovanna Mezzogiorno. Dal libro di Segio, Miccia corta, è partito De Maria per la sua narrazione. E proprio la presenza della coppia Scamarcio-Mezzogiorno fa pensare ad un film in qualche modo mitizzante. Così, prima ancora di essere in sala, la pellicola suscita commenti durissimi. «La prima linea - ha detto al Sole 24Ore Giuseppe Galli, figlio del giudice Guido, assassinato dentro l’Università statale di Milano - racconta un episodio fine a se stesso, da cui i giovani possono essere attratti. Della serie il bandito fascinoso che va a liberare la sua bella».

Certo, all’inizio, Scamarcio-Segio prende le distanze da quel passato e risale dall’abisso di quegli anni: «Eravamo convinti di aver ragione e invece avevamo torto». Ma quella premessa, quasi una chiave di violino per leggere quello spartito tenebroso, non mette De Maria al riparo dalle critiche più affilate.

Mariella Dionisi, vedova dell’agente Fausto, ucciso alle Murate di Firenze il 20 gennaio ’78 in un’azione simile a quella di Rovigo, non fa sconti al regista: «Anche questa volta si ripeterà fatalmente il solito copione - spiega al Giornale - la storia ce la raccontano gli assassini, i carnefici, i killer, non chi ha subito, non chi ha sofferto, non chi ha avuto la vita devastata». Non basta, la signora Dionisi sposa anche la preoccupazione di Galli sul fascino del male: «Questi film finiscono per trasformare gli assassini in eroi. Scamarcio il bello che va a soccorrere la sua donna altrettanto avvenente. Manca il cavallo bianco, ma io credo che l’effetto sarà quello di relegare in un angolo le tragedie, il sangue, il dolore e di far risaltare gli sguardi ispirati, le azioni rapide, il lato romantico dei protagonisti».

Certo, anche gli ex soldati del terrore non sono invulnerabili, come dimostra il suicidio di Diana Blefari Melazzi, brigatista dell’ultima generazione. Ma anche su questo punto Mariella Dionisi non concede nulla alla pietà: «Ho letto che quella donna si è suicidata perché le avevano confermato l’ergastolo. Guardi, gli unici a scontare una pena che non finisce mai siamo noi. Sono io, vedova da più di trent’anni e mia figlia cresciuta senza conoscere il padre».

Naturalmente, si potrebbe obiettare che proprio la distanza temporale dagli eventi autorizza una riproposizione in chiave cinematografica. È quel che timidamente afferma Maurice Bignami, uno dei capi di Prima linea e uno dei membri del commando che uccise Galli: «Non credo che si possa censurare un film solo perché parte da un libro di Segio o perché privilegia due terroristi». Il film però ha avuto un finanziamento di un milione e mezzo di euro dal ministero dei Beni culturali e stava per ottenere anche il patrocinio del Comune di Milano.

«Capisco il disagio delle vittime e sono l’ultimo a poter parlare - risponde Bignami - ma se il racconto è azzeccato, perché non dargli un contributo? Piuttosto, credo che noi ex terroristi dobbiamo avere il dovere della riservatezza, della compostezza, della sobrietà.

Dobbiamo evitare i riflettori, le cattedre, la volgarità e la spettacolarizzazione. Questo non vuol dire non poter raccontare come andò. Temo invece che un giorno o l’altro qualche ex brigatista venga invitato all’Isola dei famosi».

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