Il film più deludente? Le sparate dei registi

Le bordate di Placido, la sociologia di Celestini, le accuse politiche di Martone alla fine appannano lavori interessanti

Il film più deludente? Le sparate dei registi

Venezia - Ora che si è visto anche La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo, quasi quasi si potrebbe pensare ad un bel film sui registi italiani in passerella al Lido alla 67ma Mostra del cinema. Si fanno i documentari su coloro che sono venuti «la prima volta a Venezia». E anche sui «nostri inviati». Perché non andare dritti al cuore dei nostri registi? Magari con una commedia cialtrona che ne mostri il lato oscuro, quasi autolesionista, che viene a galla appena sconfinano sui terreni della politica, dell'analisi delle istituzioni, della sociologia di mercato? L'autolesionismo sta nel fatto che, fuori dal terreno aduso, quasi sempre danneggiano le loro opere, togliendo freschezza e densità a film spesso apprezzabili. Che, tuttavia, sembrano interessare sempre meno anche la stampa internazionale presente al Lido. Forse perché l'Italia che vedono e soprattutto di cui parlano i nostri cineasti è un film che si fanno loro. Una caricatura, una parodia. E allora la commedia di presa in giro dei registi potrebbe essere un bel film nel film, come no.

La prima scena si potrebbe affidarla a Michele Placido, guru fumantino è un po’ sbruffone che, per difendere la sua semibeatificazione di Vallanzasca, l'altro giorno è riuscito a dire che «non sarà Vallanzasca il nemico pubblico numero uno in Italia! Ci siamo dimenticati del terrorismo rosso e nero? E poi - ecco il colpo di genio - in Parlamento ci sono persone che hanno fatto peggio di lui». Se non è un film questo! In Parlamento ci sono persone che hanno fatto peggio di Vallanzasca. Occorreva una sparata simile per proteggere Gli angeli del male? Non sarebbe stato meglio accettare qualche critica e dire ci ho provato, il sentiero per raccontare un bandito seducente e fanfarone come il bel René è molto stretto eccetera? Un ex magistrato e ora senatore Pd come Gianrico Carofiglio ha detto chiaro che invettive poco ponderate come quelle di Placido rischiano di «alimentare il qualunquismo». Dissolvenza.
Nella seconda scena, poco più che un cameo, compare Ascanio Celestini e basta uno spunto del suo La pecora nera con fantasticherie annesse per capire in quale mondo galleggi. Nel film sui matti un supermercato è quasi più centrale del manicomio stesso. Perché? «Perché al supermercato, come a scuola o in caserma, siamo alienati e compulsivi tanto quanto, se non più che in manicomio». Il cameo potrebbe chiudersi qui. Oppure, si potrebbe chiedere un commento a qualche famigliare di malati di mente... Nel terzo capitoletto, accompagnato da un crescendo rossiniano, compare Mario Martone, autore di Noi credevamo, affrescone sul Risorgimento italiano raccontato dal basso, e concluso con una diagnosi sulla «società gretta, superba e assassina», in preda a «tentazioni autoritarie di cui troviamo traccia anche oggi». Considerando che nei 204 minuti del suo kolossal su quarant'anni di storia patria Cavour non compare un secondo, bisogna concludere che con l'autorità e i governanti in genere Martone non deve avere un rapporto pacificato. Ma, a questo punto, forse neanche con la storia. E il film intimistico di Costanzo? Un po’ come Cavour, Torino appena s’intravvede.
Che dire? La visionarietà e la presunzione non fanno difetto ai nostri cineasti.

L'unico che pur tentando di fornire la propria chiave di lettura («L'Italia è una soap opera»), ha avuto l'onestà di ammettere qualche difficoltà è Carlo Mazzacurati, autore de La passione: «E' sempre più difficile distinguere l'azione dalla sua parodia», ha osservato provando ad essere sferzante. «Se ti allontani dall'Italia per una settimana e poi ci torni hai perso troppe puntate». Chissà, forse i nostri registi saranno rimasti a lungo all'estero...
Titoli di coda.

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