Se c'è un regista in grado di rendere epiche sul grande schermo le storie che di volta in volta hanno catturato la sua attenzione, quello è Ron Howard. La sua filmografia ha tematiche disparate: un matematico insignito di Premio Nobel ("A beautiful mind"), un duello automobilistico ("Rush"), uno politico ("Frost/Nixon"), avventure nello spazio ("Apollo 13"), i bestseller di Dan Brown ("Il codice da Vinci" e "Angeli e Demoni"); eppure le sue pellicole sono tutte accomunate da una narrazione tradizionale e da uno stile classico e, ad un tempo, riconoscibile, in grado di trasformare blockbuster in epopee.
Stavolta Howard si accosta al mito di "Moby Dick" ma ha il buon senso di non sfidare il capolavoro letterario di Herman Melville affrontandone la trasposizione cinematografica: sceglie, piuttosto, di ricostruire la tragedia realmente accaduta dalla quale lo scrittore americano trasse spunto per il suo romanzo. "Heart of the sea - Le origini di Moby Dick", questo il titolo del film, è ispirato al libro di Nathaniel Philbrick "Nel cuore dell'oceano - La vera storia della baleniera Essex (pubblicato nel 2000 e vincitore del National Book Award per la saggistica). Siamo nel New England, nel 1820. Melville (Ben Whishaw) è in cerca di ispirazione e si reca da un certo Thomas Nickerson (Brendan Gleeson) per avere i dettagli di un disastro marino avvenuto trent'anni prima e di cui l'uomo è un sopravvissuto. All'inizio l'anziano è reticente ma poi si decide a svelare, per la prima volta nella sua vita, quanto avvenne della baleniera Essex che, comandata dal capitano Pollard (Benjamin Walker) e dal primo ufficiale Owen Chase (Chris Hemsworth), aveva intrapreso un lungo viaggio verso l’America Meridionale in cerca del prezioso olio di balena: fu affondata da un cetaceo bianco di dimensioni mai viste.
Il dramma messo in scena da Howard ha nella spettacolarità il suo maggior pregio. L'apparato tecnico è maestoso e in grado di regalare una grande qualità visiva all'opera. Siamo in un colossal moderno, in cui lo scenario marinaro ottocentesco è dettagliato e realistico e anche gli effetti speciali sono molto verosimili. Ma se, da un lato, la cornice mozzafiato, fatta di panoramiche sull'oceano e popolata di creature marine maestose, dona un'aura leggendaria e appaga il senso di meraviglia, dall'altro il pathos si arena ben presto nella bidimensionalità dei personaggi. La psicologia dei membri dell'equipaggio è appena tratteggiata e nessuno tra loro spicca per magnetismo. Anche quando subentra la fase statica in cui sono ritratti da naufraghi, alla deriva, l'accento è sulla fisicità dei corpi, sempre più scavati dalla fame, e non si esplora il loro vissuto interiore.
La trama ha una simbologia lineare: l'uomo sfida la Natura, questa si vendica attraverso una creatura che ne incarna la potenza e l'uomo da cacciatore diviene preda, finendo a lottare per sopravvivere. Non ci sono giudizi morali. Di questi marinai vengono mostrate l'avidità, l'ambizione, la crudeltà e la divisione sociale in classi, ma anche l’amicizia, la solidarietà e la tenacia. Ad inizio Ottocento l'olio di balena era un combustibile prezioso quanto oggi lo è il petrolio, perciò a guidare le mattanze di cetacei erano potentissimi interessi economici. Quando però i protagonisti vanno oltre quelli e agiscono mossi dall'arroganza di piegare le leggi di Dio al loro volere, perdendo il senso della misura (che invece è costantemente reso dal paragone visivo tra le dimensioni della balena bianca e quelle dello scafo della Essex), la cosa è ritratta per quello che è: uno sciocco errore di valutazione.
E' importante che il pubblico sia testimone consapevole di quel cieco passo falso, dal momento che, fuori dalla sala, è esso stesso protagonista di un'epoca in cui si discute di problemi legati al clima e i giapponesi annunciano il ripristino della caccia alle balene.Superfluo, in questo caso, il 3D: scurisce l’immagine senza aggiungere granché.
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