La filosofia editoriale di Benedetto Croce

Dal carteggio con Giovanni Laterza emerge un intellettuale imprenditore attento a tutti gli aspetti del prodotto libro: dalla carta alla réclame

La filosofia editoriale di Benedetto Croce

Il secondo volume della corrispondenza tra Benedetto Croce e l’editore Giovanni Laterza, curato da Antonella Pompilio (Carteggio, 1911-1920, Laterza, pagg. 966, euro 48), rappresenta non soltanto un contributo importante per la conoscenza della cultura italiana del primo Novecento, ma anche una fonte preziosa per approfondire la biografia di colui che fu sicuramente il più grande intellettuale del Novecento. Dalle più di 2500 lettere, ora pubblicate, emerge infatti un Benedetto Croce inedito, ritratto nel ruolo di intellettuale-imprenditore, in grado di seguire, passo per passo, la produzione e la distribuzione del prodotto-libro: dall’ideazione alla realizzazione materiale (impaginazione, scelta della carta, dei caratteri di stampa, tipo della legatura), ai problemi di carattere finanziario, a quelli relativi alla promozione presso il pubblico dei lettori, alla réclame, come si usava dire a quell’epoca, di questa particolarissima merce.
Croce impresario in grande stile del mercato editoriale, dunque: interessato a creare un polo di qualità e di eccellenza nell’Italia meridionale che fosse in grado di competere con la grande industria libraria piemontese, lombarda, toscana. Ma anche Croce padre-padrone nei suoi rapporti con Laterza, a volte considerato poco più di un semplice esecutore delle sue direttive, al quale veniva molto spesso negata ogni possibilità di indirizzo e di scelta autonoma, a volte aspramente rimproverato anche soltanto per qualche trascuratezza nella composizione dei testi dati alle stampe. Così nella lettera del 22 marzo 1911, nella quale un iratissimo Croce bollava a caratteri di fuoco «la mancanza di disciplina della vostra tipografia», aggiungendo: «Voi compromettete un’impresa grandiosamente condotta avanti, la compromettete nel modo più brutale: come se faceste una macchia d’olio su di un vestito di seta». Così ancora nella fitta corrispondenza dell’agosto 1914, dove venivano puntualmente rimproverati a Laterza «ostinatezza» nel perseguire scelte sbagliate e «spacconeria» nel voler fare passi più lunghi della gamba, che si concludeva con l’invito a «scegliervi un socio tedesco, così il vostro slancio, che spesso diventa avventatezza, avrebbe un contrappeso e acquisterebbe equilibrio».
Di anno in anno, tuttavia, pur tra mille rimproveri e rimbrotti del filosofo, ai quali Laterza opponeva soltanto un contrito e sommesso pigolar di scuse, l’azienda editoriale barese cresceva e assumeva un rilievo di carattere non solo nazionale. Nel suo catalogo trovavano posto storici, filosofi, letterati di fama europea, mentre i volumi di Croce, di cui nel 1918 si programmava un’edizione completa, varcavano i confini della Penisola e ricevevano l’onore di traduzioni inglesi, francesi, tedesche. Anche l’Impero del Sol Levante reclamava la sua parte di gloria in questa opera di diffusione, con la versione giapponese di Filosofia della pratica, pubblicata nel 1916. La repubblica letteraria europea, che Croce aveva inteso costituire, anche grazie alla collaborazione con Laterza, diveniva così cosmopoli intellettuale.
Nel giugno del 1914, i colpi di revolver di Sarajevo avrebbero minacciato quella cittadella della cultura, senza però distruggerla. Fortemente e intimamente contrario alla presa d’armi italiana, da lui considerato un male, anche se un «male inevitabile», il filosofo opponeva tutta la sua autorevolezza al dilagare di un selvaggio sciovinismo intellettuale. Proprio negli anni del conflitto, Laterza pubblicherà, su consiglio di Croce, alcuni classici della storiografia tedesca, respingendo quell’equazione tra militarismo prussiano e cultura germanica che anche intellettuali di grande lucidità come Guido de Ruggiero andavano invece diffondendo, subito dopo l’inizio delle ostilità. Un atteggiamento, questo di Croce, che non corrispondeva sicuramente a un imbelle pacifismo, dimentico della proprio orgoglio nazionale, come oggi troppo spesso si sostiene.
Dopo il disastro di Caporetto, il filosofo ricordava nel suo diario il profondo scoramento che lo rendeva «quasi malato, e incapace di qualsiasi pensiero, che non siano quelli tristi, disperati sulla sorti d’Italia».

Stessi amarissimi accenti trapelavano nella corrispondenza con Laterza, ma anche un sentimento di vigorosa reazione, che avrebbe trovato posto nelle sue prese di posizione pubbliche, quando Croce avrebbe dichiarato di amare di maggiore amore una patria «che abbia saggiato l’onta e la rabbia della sconfitta, e non si sia accasciata, ma subito raccolta per la resistenza e si sia avanzata alla riscossa».
eugeniodirienzo@tiscali.it

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