Da qualche tempo, il molto onorevole Rocco Buttiglione, vicepresidente della Camera e presidente dell’Udc, ce l’ha con il Giornale. Tre mesi fa, sul caso Boffo, ci ha trattati da «leninisti». L’altro ieri ci ha detti «fascisti». Per questi ondeggiamenti di giudizio si ipotizzano tre cause: ormai sessantunenne si avvia all’obnubilamento; è un analfabeta di ritorno poiché da 16 anni trascura gli studi per la politica; non se lo fila più nessuno e sfoga come può la sua infelicità. È sempre imbarazzante doversi occupare di persone in crisi ma l’informazione ha i suoi imperativi.
Dunque, due giorni fa, il filosofo tomista ha detto in un prestigioso convegno (l’Assemblea delle Regioni) che rappresentiamo la componente degenerata e fascista del Pdl. Testualmente: «Il fascismo era quello che per combattere la sinistra decideva che bisognava essere più carogne dei delinquenti della sinistra. Nel Pdl c’è questa componente. Prendete il Giornale di Feltri e vedrete che sta seguendo Repubblica in questa nobile contesa». Ammettiamo, per comodità, che sia vero. Viene subito da notare che, per Rocco, Repubblica è la battistrada e il Giornale insegue. Il filosofo non precisa se l’abbia raggiunta o sia ancora distanziato. È legittimo allora chiedersi perché si svegli adesso per il Giornale che sarebbe l’allievo e abbia sempre taciuto sulla Repubblica, il maestro. Se noi siamo fascisti, tanto più lo sono i colleghi che ci sopra(d’a)vanzano. Un salto logico che fa propendere per la prima delle tre ipotesi su esposte: Buttiglione è affetto dal vagellare dell’età. Se invece le sinapsi funzionano significa che è in malafede. Può riscattarsi dando del fascista al quotidiano di De Benedetti nelle prossime 48 ore. Se non lo fa, saremmo legittimati a dargli del cialtrone per il resto dei suoi e nostri giorni.
Non contento, il pensatore ha aggiunto che il Giornale è «un covo di iene dattilografe». Ignoro cosa ne pensi la redazione ma ci sarebbe da querelarlo. Non per l’offesa – siamo tutti pellacce – ma per mancanza di originalità. Se vuole proprio offenderci, si inventi qualcosa di nuovo. Invece, ha ricalcato Max D’Alema che usò la stessa formula riferita all’intera stampa italiana nel 1999 quando era premier. Ripeto: presidente di tutti gli italiani. Poi, se la prendono con le intemperanze del Cav! Tuttavia, tra la fanfaronata di Max e quella di Rocco la differenza sta nell’ironia. D’Alema, pur non essendo docente e anzi neanche laureato, faceva una citazione colta sia pure tutta interna al suo lugubre mondo pansovietico. Il copyright dell’espressione è infatti di Stalin che parlò di «iene dattilografe al servizio dell’imperialismo». Max, dunque, aveva parafrasato l’idolo della sua gioventù con intenti – fiacchi quanto si vuole – ma pur sempre umoristici. Rocco, invece, totalmente all’oscuro dell’aggancio storico, ha voluto solo aggredire guidato dal già evocato analfabetismo di ritorno (seconda ipotesi).
Ora, non ci resta che vagliare l’ultima supposizione sul declino buttiglionesco: la frustrazione per essere finito nel dimenticatoio. È senz’altro la componente predominante dei suoi vaneggiamenti. Dell’Udc è presidente. Un ruolo di facciata: poteri reali, zero. A mettere bocca neanche ci prova. Il partito si muove impazzito tra destra e sinistra. L’ultima bizzarria del capo vero, Pierferdy Casini, è un patto di sangue con Di Pietro e con il Pd. Cioè con un manettaro e una consorteria che non sapendo a che santo votarsi fa l’occhiolino a vetero comunisti, Pecoraro Scanio ecc. Un carro di Tespi che – tra matrimoni gay, testamenti biologici, concepimenti in provetta – dovrebbe fare venire l’orticaria al pio Buttiglione. Dovrebbe. Il poveretto invece, consapevole di contare un fico secco, incassa e tradisce se stesso per uno straccio di poltrona. D’altra parte, se non si adegua, lo gettano alle ortiche.
Le sconfitte degli ultimi anni lo hanno ridotto all’angolo. Nel 2004 doveva diventare commissario europeo. Fu il Cav – che oggi svillaneggia – a proporlo dopo averlo già nominato due volte ministro. Messo sotto esame dall’Ue, Rocco fu bocciato per parrucconeria. Gli venne rinfacciato di avere detto in un convegno teologico che i gay erano «indizio di disordine morale». Pregato di precisare, cercò di mettere una pezza a colore e fece peggio: «Come cattolico considero l’omosessualità un peccato, non un crimine». Ossia in galera no, all’inferno sì. Figurarsi gli eurocrati. Lo invitarono a ripresentarsi mentre loro ci riflettevano. E Rocco che ti fa? Va a una altro convegno e se la prende con le ragazze madri dicendo: «I bambini che hanno solo la madre e non un padre sono figli di una madre non molto buona». Ossia, figli di una buona donna. L’Ue lo mandò al diavolo e prese il suo posto il più laicamente disinvolto, Franco Frattini.
Fu una brutta batosta. Due anni dopo, per sottrarlo all’avvilimento, l’Udc col benestare di quel buon samaritano del Cav, lo candidò sindaco del centrodestra di Torino contro l’uscente ds, Chiamparino. Fu scelta Torino perché era la città della sua adolescenza. Qui, aveva rianimato la locale Comunione e liberazione e conosciuto il filosofo cattolico Augusto Del Noce che gli istillò il gusto del sillogismo. Lo stesso che, anni dopo, lo fece suo assistente alla Sapienza di Roma mettendolo in cattedra. Bene, nonostante fosse di casa sotto la Mole, l’elezione andò di peste. Rocco fu sbattuto fuori al primo turno come un cingalese di passaggio: prese meno del 30 per cento dei voti. Da allora, è considerato irrecuperabile e sopravvive vivacchiando.
Gli esordi in politica, nel ’93, erano stati ben altro. Entrò nella Dc-Ppi con l’aureola dell’intelligentone. Parlava sei lingue e aveva collaborato con Papa Wojtyla per un paio di encicliche. Era considerato un conservatore di destra, ma sapiente. Nel ’94, venne eletto deputato e segretario del Ppi. Si alleò prima con la sinistra, poi con il Cav. Per questo, fu cacciato dal partito. Lui ne fondò uno suo, il Cdu.
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